29 November 2008

Fotogrammi Milanesi: Un Giro in Fiera


“I recline by the sills of the exquisite flexible doors,
and mark the outlet, and mark the relief and escape.”

W. Whitman, Song of Myself


La breve riflessione che intendo qui sviluppare prende il via dall’esperienza di una giornata alla Fiera di Rho-Pero, in occasione del Salone del Mobile, vista come pretesto per approfondire alcuni temi del corso di Antropologia Culturale: attraverso un veloce resoconto, corredato da materiale fotografico, e alcune riflessioni di carattere molto personale cercherò di mettere in luce qualche punto che ha sollevato in modo particolare il mio interesse, senza alcuna pretesa esaustiva.

Resoconto

Ore 13:15

Prendo l’auto per recarmi alla stazione di Lomazzo: mi trovo come al solito a mio agio nel guidare, quando non c’è coda; riesco a pensare e a rapportarmi a quanto vedo fuori dal finestrino. Eppure il ciglio della provinciale non dovrebbe possedere qualche attrattiva, ma ne sono comunque incuriosito.

Ore 13:43

Salgo sul treno dal binario 1 ed incontro un’amica che non vedo da mesi, con la quale chiacchiero per metà del viaggio: forse non sono più in un nonluogo... Arriva il controllore e timbra il biglietto. Ho tempo e voglia di riflettere sul paesaggio che scorre fuori dalla carrozza: l’architettura dismessa, i residui industriali mi sembrano sopravvissuti molto bene al tempo e trovo che abbiano molto da dire a chi li guardi; non così per le nuove palazzine che intravedo più o meno in lontananza. Sono imbarazzanti per me e per loro stesse, mi dico; non sono in grado di sostenere un dialogo con la ferrovia, e questo mi rattrista abbastanza. Dalla porta dello scompartimento giunge un ragazzo trasandato con un cartoncino spiegazzato in pugno: “Sono povero, ho 4 fratelli, datemi qualche soldo per mangiare, aiutatemi, grazie e buon viaggio.” Cerco di dissimulare il disagio e non ho la forza per fare nulla, tranne che rimanere seduto. Credo che nessuno gli abbia dato retta. Penso a quanto scrisse Simmel sullo spirito oggettivo nell’ambiente metropolitano, a come si sviluppino dei meccanismi di difesa del proprio equilibrio personale, al blasé.

Ore 14:20

Arrivo alla stazione Cadorna. Mi dirigo spedito verso l’imbocco della metropolitana, linea rossa, e compro un biglietto alle macchine automatiche; nel frattempo si avvicina un uomo di mezza età che mi chiede se posso fare un biglietto anche per lui. Evidentemente non è italiano. Sono subito insospettito dalla cosa, pensando a qualche fregatura, e mi faccio consegnare un euro prima di schiacciare il pulsante. Solo quando sono già sulla metro, dopo una decina di minuti, concludo che quell’uomo voleva soltanto che lo aiutassi a fare il biglietto.

Ore 14:56

Entro in Fiera dopo aver chiesto uno sconto studenti alla cassa: mi rendo conto dopo qualche attimo di aver sperimentato uno dei tanti dispositivi di sorveglianza alle soglie di ingresso dei (non)(super)luoghi della (sur)(post)modernità. Mentre giro per qualche padiglione del Salone, riesco solo a organizzare pensieri abbastanza banali, come il fatto che sia difficile orientarsi fra scale mobili uguali che portano agli stessi punti di ristoro con gli stessi panini in mostra; ci si possa muovere solo leggendo le indicazioni segniche dei troppi cartelli etc. La conferma è data da una signora che replica urlando al telefono a chi cerca di guidarla verso l’uscita, che i corridoi qui sono tutti principali.

Ore 18:03

Fiumi di persone si riversano all’uscita e, per evitare l’ingorgo, penso di dare un’occhiata agli edifici amministrativi del complesso: qui scopro un mondo completamente diverso. Dal troppo pieno sono passato al troppo vuoto; mi aggiro per halls enormi e vuote. Incontro anche una donna delle pulizie e mi rendo conto, seguendo Goffman, di essere nel tempo e nel luogo del back, dopo aver sperimentato il front. Decido di dirigermi alla metro e mi accodo ordinatamente fra le indicazioni degli addetti allo smaltimento umano: dopo venti minuti riesco a guadagnare un vagone e mi precipito nell’angolo in fondo a sinistra seguito da una ragazza che, come me, cerca il posto più tranquillo. Ci scambiamo uno sguardo di intesa.

Ore 18:52

Giungo in Galleria V. Emanuele e mi siedo all’interno di una istallazione realizzata in occasione del prossimo Expo insieme ad altre persone a guardare un video sul design; penso che qui e in questo momento mi trovo veramente in un luogo, ma anche che questa sensazione vive del contrasto con l’esperienza completamente differente in Fiera. Cerco di capire se la definizione di spazio pubblico sia ancora applicabile qui. Un nonno con nipote si incontrano alle sedie di fianco alla mia; sembra non si siano visti per qualche tempo. Più che altro stanno zitti e guardano lo schermo insieme a me godendosi l’atmosfera.

Ore 21

Partenza del treno da Cadorna. Due inglesi mi chiedono se si fermi a Bovisa. Qui sale un extracomunitario e so benissimo di sperare che non si sieda vicino a me. Prima di scendere a Lomazzo faccio in tempo ad avvertire un signore orientale che gli sono caduti gli occhiali sul pavimento mentre si era appisolato. Dopo l’arrivo in stazione riprendo la macchina e ritorno a casa passando ancora dalla provinciale.

Riflessione

L’idea di fiera è sempre stata presente nella cultura popolare, ma una forma organizzata, su base inizialmente nazionale e, da metà ‘800 internazionale, si ha solo nel 1798 con l’Esposizione Universale di Parigi, in cui si presentarono principalmente oggetti di uso quotidiano e che segnò la via per le successive edizioni, accomunate da un carattere espressamente festaiolo. Scrive Giedion:

“L’Ottocento segna il momento in cui lo svago dileguava dalla vita quotidiana. La capacità di svolgere una forma originale di Festival dileguò con esso. Durante la seconda metà dell’Ottocento le esposizioni diventarono i grandi festival della vita dei popoli. Magazzini, empori e palazzi per uffici rimasero strettamente condizionati da necessità pratiche. Le esposizioni avevano anch’esse una funzione pratica da assolvere; ma operavano in un ambiente fuori dal turbine della vita quotidiana, ed erano in grado di mantenere un carattere festaiolo. Fra i loro aspetti festaioli e quelli pratici o rappresentativi c’era sempre un netto contrasto. La sicurezza che si afferma nella costruzione dei grandi saloni non è trasposta, per esempio, nell’attrezzatura sociale dei loro interni. Ma, pur entro questi limiti, esse rappresentano il più riuscito tentativo del periodo, per creare una occasione originale di celebrazione collettiva.”

L’architettura delle esposizioni si rivelava un forte campo per la sperimentazione, per dare lustro alle conquiste dell’industria e stupire i paesi ospiti: la costruzione in vetro e metallo divenne il simbolo pionieristico del periodo; un esempio fra tutti fu il Chrystal Palace progettato da Joseph Paxton per l’Esposizione del 1851 a Londra. E a tal punto questa tipologia architettonica li legò al concetto stesso di fiera, che ora non si fatica a collegare il palazzo di cristallo alla struttura milanese di Fuksas: sembra che 150 anni siano inconsistenti; oltretutto fin dalle prime edizioni il problema del traffico e dell’accessibilità furono punti chiave per il successo dell’evento, esattamente come oggi, sebbene la fiera sia rivolta sempre più spesso ad un pubblico specializzato e tenda a perdere il carattere ostinatamente internazionale per radicarsi nell’immagine della città che la ospita. Se il carattere di svago e la tipologia architettonica sono alcuni degli elementi comuni che collegano l’odierno spazio della fiera ai suoi predecessori, dobbiamo essere coscienti che l’orizzonte nel quale queste due forme si inquadrano è profondamente differente: il concetto di esposizione concentrata in un luogo fisico preciso per un determinato periodo di tempo cade rovinosamente di fronte alle possibilità offerte dalle reti mediatiche, ed è chiaro che siamo di fronte ad una espressione dell’epoca dei flussi e dell’economia postfordista di non facile interpretazione. Per cercare di analizzare la Fiera di Rho-Pero introduciamo la categoria del superluogo.

Il neologismo superluoghi definisce alcuni spazi in cui funzioni urbane, infrastrutture e spazi serventi si sommano e creano una sinergia. Il concetto è di difficile definizione in quanto molto legato a interpretazioni derivanti dalle riflessioni sui nonluoghi di Marc Augé. Le funzioni in esso raccolte sono di carattere terziario, ludico e di intrattenimento, sempre legate a flussi di persone, investimenti ed informazioni. Ai flussi, generati dalle istanze poste dalla società contemporanea, si legano temi del consumo come affermazione del proprio status, alla capacità di spesa del tempo libero e al nuovo welfare generato dalla società del low-cost. Il territorio si trova segnato da questi elementi che, localizzati secondo strategie commerciali, lavorano per bacini d'utenza, così da evidenziare una nuova geografia, sovrapposta a quella del territorio fisico, che punteggia uno spazio liscio e continuo di polarità che creano e sfruttano flussi di utenti. La dirompente azione di presidio del territorio da parte delle attività commerciali e dello svago, vero fulcro della vita dell'uomo contemporaneo, segna lo spazio che può essere scomposto in più livelli, e permette di leggere il sistema distributivo in layers orientati a sfruttare bacini d'utenza diversi e legati a logiche sistemiche di elevata complessità, il cui equilibrio, dinamico per definizione, poiché connesso a flussi di merci e di consumatori, è sempre altalenante fra il presidio di quelli consolidati e l'attrazione di nuovi. La lettura dei diversi livelli porta alla creazione di sistemi territoriali, incentrati su figure puntuali che sono ripetute a segnare un territorio continuo, territorio che è chiamato a confrontarsi con la globalizzazione, intesa non con un carattere marcatamente massificante ed unificante, ma come fonte di differenziazione e scomposizione. Possono essere superluoghi aeroporti con funzione di hub, outlet commerciali, grandi parchi tematici, ed anche la Fiera di Rho-Pero; spazi legati alla mobilità e allo svago, che non sono più pensati solo come macchine efficienti ma come contenitori di numerose funzioni, veri motori delle trasformazioni urbane e del territorio. Alcuni sostengono che i superluoghi possiedano, al contrario dei nonluoghi, un carattere specifico, un genius loci, che consente loro di essere determinanti nel creare o trasformare l’identità di un territorio. Non si intende qui fornire risposte categoriche, ma mi limiterò a postulare alcune domande che mi sembrano paradigmatiche, ed abbozzare una riflessione sulla base dell’esperienza personale:

- che tipo di società rappresentano i superluoghi?
- può la nostra società farne a meno?
- cosa ci spinge a frequentarli?

Bauman scrisse che noi siamo cacciatori di identità, vogliamo riconoscere ed essere riconosciuti come individui e persone; tuttavia alle volte portare un’identità diventa un elemento che si vorrebbe abbandonare momentaneamente, per cercare dei luoghi in cui si possa trovare sollievo nel completo anonimato (credendo di essere senza legge, ordine, limite), nella non riconoscibilità. Ricordiamo anche, a livello di suggestione, la definizione di città weberiana, che trova il proprio limite esattamente nell’anonimia. Poter accantonare per un’ora, un giorno l’apparato che noi presentiamo agli altri nella vita quotidiana, con la consapevolezza di ritornare nella nostra identità una volta trascorsa questa parentesi spazio-temporale di evasione (non dimentichiamo che il termine persona in latino significa “maschera”). Infatti l’identità non deve essere concepita come un dato a priori, ma come una decisione, che permetteva di stabilire dei confini. E nei superluoghi, paradossalmente, ci si reca anche per questo: si percepisce che altri individui fruiscono lo stesso tipo di servizio (quasi sempre commerciale) sentendosi liberi di poter non rappresentare nulla per nessuno; si è poi più o meno consapevoli di sperimentare uno spazio pubblico simulato, solo all’apparenza libero e democratico, in realtà ipercontrollato e selettivo. Ci si sente sicuri qui. In un certo senso si esperiscono spazi “facili”, in cui gli unici problemi che possono sorgere sono causati dalla componente tecnologica e infrastrutturale, ad esempio ingorghi di traffico, e mai da cause relazionali. Si allarga quindi la possibilità di fruizione ad ampie fasce di popolazione (la quale di questo si rallegra), ma puramente con intento economico-commerciale. Ancora Bauman, ma con lui molti altri, da tempo indica il declino degli spazi pubblici e la conseguente individualizzazione dell’esperienza: con l’intenzione di confutare almeno in parte questa tesi mi sono recato in Fiera, ma qui non ho avuto altro che una conferma. È vero, tutto quello che ho trovato nega le caratteristiche peculiari dello spazio pubblico, in principio la socializzazione: eppure mi sono sentito a mio agio, per quanto ho esposto nelle righe precedenti e per quanto segue.

Infatti, ulteriore punto di attrazione è dato dal carattere occasionale della fruizione dei superluoghi: questi ci piacciono perché non ci andiamo tutti i giorni, ma rappresentano una fuga dal quotidiano, possiedono il fascino dell’evento, ed in questo si riallacciano a tutta l’analisi delle eterotopie foucaultiane. Entrano qui in gioco le categorie interpretative di Lefebvre dello spazio percepito e immaginato: l’esperire non è solo materiale, ma si carica di valori legati all’aspettativa ed al desiderio, tanto più nella società dei media di cui facciamo parte. Tuttavia nell’epoca postfordista (ma già Jünger ne parlava a proposito della modernità) il tempo libero, il nostro lasciapassare, senza il quale non abbiamo possibilità di entrata, è meno libero di quanto appaia. Sempre più mi sembra si approdi ad un tempo organizzato, in cui la libertà consista solo nello scegliere fra alcune opzioni date: la distinzione fra chi deve spostarsi, per lavoro ad esempio, e chi può spostarsi utilizzando il proprio tempo “libero” si fa sempre meno netta; anche da qui l’analisi di Castells che suddivide la società fra popolazione locale e le élites legate ai flussi e connesse in rete. È innegabile comunque che la gente si trovi relativamente bene nei superluoghi, altrimenti non li frequenterebbe: probabilmente queste visite attingono alla sfera dello status symbol, nel mondo odierno, in cui in molti casi la possibilità di acquisto è percepita come un valore fondamentale, e, nell’ottica del consumo la spesa economica equiparata allo svago può assolutamente appagare questo tipo di fruitori. Il vecchio piacere del flâneur di vagare per la città si sta addomesticando in un gioco che assomiglia ad una simulazione; ad ogni modo è con questo spirito baudeleriano che ho sperimentato lo spazio della Fiera, consapevole della mia osservazione partecipata.

Qui vorrei dare una svolta alla riflessione passando attraverso Goffman: egli parla di spazio situato, prendendo in prestito la metafora teatrale, per indicare con frame la cornice che include e limita una situazione, nella quale noi agiamo con determinati ruoli e maschere che scegliamo di indossare. Ma proprio il concetto di “situazione” mi ha ricordato le indagini e le idee, a volte pionieristiche, a volte estreme del gruppo situazionista. L’analisi del Situazionismo che qui ci interessa (fra i cui principali esponenti ricordiamo Guy Debord, Asger Jorn e Constant) riguarda la visione dell’architettura e dell’“urbanismo unitario,” e, nello specifico, l’attenzione rivolta all’atmosfera della città e al suo carattere geopolitico, costruiti in uno spazio sociale caratterizzato da espressioni nomadiche e in trasformazione. Il gruppo metteva in scena situazioni, in termini di esperienze ed ambienti vissuti, come campo di ricerca sulle relazioni fra luoghi ed emozioni. La mappa, divenuta simbolo del movimento durato dal 1957 al 1972, dal titolo Naked City è un assemblaggio di frammenti, il cui montaggio rispecchia una topografia urbana proiettata in un panorama sociale ed affettivo. Questa è stata composta con diciannove ritagli di una mappa di Parigi che, essendo passata attraverso un processo di détournement volto a creare nuove relazioni fra i luoghi della città ed i suoi abitanti-spettatori, è ricomposta con frecce direzionali di colore rosso che connettono le varie parti. Le frecce sono intese come plaques tournantes che descrivono l’orientarsi del soggetto che sperimenta diversi ambienti psicogeografici e “unità d’atmosfera”; queste inoltre indicano il grado di coinvolgimento (e)mozionale di chi ha redatto la mappa. È chiaro qui l’intento di accentuare ed evidenziare il carattere sequenziale dell’architettura, tanto da avvicinarla, attraverso il concetto di montaggio, alla pratica cinematografica: d’altronde fu Ejsenstejn che dichiarò l’architettura essere l’arte più vicina al cinema, e da qui ho impostato il titolo, che riprende l’idea di fotogramma come parte, frammento, di una narrazione sequenziale, pur essendo dotato di unità autonoma.

Guy Debord, 1955, "Psychogeographic guide of Paris: edited by the Bauhaus Imaginiste Printed in Dermark by Permild & Rosengreen - Discourse on the passions of love: psychogeographic descents of drifting and localisation of ambient unities"

Infatti, se andiamo ad indagare l’origine del titolo della mappa di Debord e Jorn rintracciamo il film noir del 1948 The Naked City diretto da Jules Dassin, dello stesso periodo delle indagini neorealiste italiane: nel lungometraggio la città di New York diviene la vera protagonista durante una caccia all’uomo da parte di un detective costretto ad esplorare a piedi alcuni ambienti urbani in una vera promenade dal valore cinestetico. La città, seguendo il corollario che conclude il film, può ospitare milioni di storie, e lo spettatore ne ha seguita soltanto una: qui New York non è solo la location di un evento, ma diviene essa stessa soggetto essenziale capace di contenere sé stessa e racconti potenzialmente infiniti. Ma perché questo accada essa deve essere nuda: chi la sperimenta è guidato dal desiderio. Si stabilisce qui una relazione fondamentale fra architettura ed esperienza del corpo umano: la città crea delle aspettative, dei desideri che hanno assolutamente a che fare con la percezione sensuale, e principalmente erotica; corpo umano e corpo urbano si sovrappongono creando uno spazio liminale attrattivo per l’instaurarsi di milioni di storie. Per questo il sottotitolo della mappa situazionista è Discours sur les passions de l’amour. Riecheggia qui un sottotitolo del film Sunrise di Murnau: “Leave all that behind... come to the city!”

Questa adesione all’entità della città ricorda quel che affermava Susan Sontag a proposito della fotografia: “il pittore costruisce, il fotografo rivela. In altri termini, l’identificazione del suo soggetto è sempre alla base della nostra percezione della fotografia, cosa che non avviene necessariamente in un quadro.” Mentre il fotografo Coburn: “L’altro giorno mentre risalivo il porto di New York a bordo di un transatlantico, ho pensato alla profonda affinità che esiste tra la mente di colui che creò questi giganteschi mostri simili a marziani - i ponti a sospensione - e quella dei fotografi della nuova scuola (si riferisce qui a Stieglitz e al gruppo di Camera Work).” Oppure il pittore John Marin riguardo al fascino subito dalla metropoli newyorkese: “Dobbiamo sentire la vita di una grande città solo negli uomini e negli animali che popolano le sue strade e le sue case? E gli edifici, sono essi forse morti? Ci è stato detto che un’opera d’arte è una cosa vivente. Non si può creare un’opera d’arte finché le cose che vediamo non corrispondono a qualcosa che è in noi stessi. Perciò se questi edifici destano in me un’intima commozione devono essi stessi avere vita. Tutta la città vive... È questo mio movimento interiore che io cerco di esprimere. Vedo all’opera grandi forze... i diversi volumi agiscono uno sull’altro... si scatenano sensazioni che mi dànno il desiderio di esprimere l’effetto di queste forze incalzanti.” Il punto a cui volevo giungere è proprio questo: di fronte a tali esperienze non si resta indifferenti, ma, in un certo senso, ci si sente partecipi del destino che accomuna uomini, edifici, città, metropoli; si percepisce una ricerca di extra-ordinarietà.

Conclusione aperta

Castells ha parlato di architettura nuda riferendosi alla tendenza odierna verso l’isolamento dell’esperienza, alla solitudine dell’individuo, rinforzata da un tipo di architettura pensata esplicitamente per questo scopo: vorrei allora ribaltare e valorizzare il significato di nudità, prendendo a prestito la Naked City dei situazionisti. Riconoscere e sfruttare dei nuovi tipi di attrattiva dello spazio urbano potrebbe essere un modo per rispondere ai bisogni della società odierna, accettando la contraddizione come elemento sine qua non sia per quanto riguarda la tematica identitaria, sia il concetto stesso di città e di metropoli.


“...straordinaria profondità dell’esperienza, sia pur essa di gioia, di malinconia e di adesione completa.” Kevin Lynch riferendosi alla città

“In un mondo isolato non ci si può esiliare.” Guy Debord in Panegirico

“Notre nature est dans le mouvement... La seule chose qui nous console de nos misères est le divertissement.” Blaise Pascal



Bibliografia essenziale:

-Giedion, Siegfried, Spazio, Tempo Architettura, Hoepli, Milano, 1989
-M. Agnoletto, A. Delpiano, M Guerzoni (a cura di), La civiltà dei superluoghi, Damiani, Bologna, 2007
-Augé, Marc, Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Eleuthera, Milano, 1992
-Simmel, Georg, La metropoli e la vita dello spirito, 1903

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