Ecce Milano
L’immagine in copertina rappresenta una sovrapposizione fra una mappa dell’area padana intorno a Milano e un’opera del pittore americano Jackson Pollock: all’inizio di questa analisi è necessario riepilogare brevemente cosa sia oggi Milano, come possa essere rappresentata e quali siano le sue principali caratteristiche e tendenze; questa sovrapposizione mi sembra possa indicare la complessità di un territorio legato a concetti come transito di flussi, rete, recentrages: a prima vista quest’area sembra un’amalgama denso frutto di una certa arbitrarietà e casualità, proprio come i segni di Pollock. Tuttavia, senza negarne la conflittualità e contraddizione, è possibile evidenziare alcuni dei fenomeni che si delineano con più chiarezza. Milano non è solo una città, ma una city region: è una regione urbana, che diffonde la sua influenza su molte delle province lombarde e che conta una popolazione di 7 milioni di abitanti: da Lodi al confine svizzero, da Novara a Bergamo e Brescia. A Milano, il posto in cui si vive, sempre più raramente corrisponde a quello dove si passa la maggior parte della giornata: lo spazio fisico convive con la realtà dei flussi, l’esperienza della liquid modernity di Zygmunt Bauman; Martinotti a questo proposito distingue tre categorie di fruitori della realtà metropolitana: la popolazione di residenti, ormai residuale, i pendolari e i city users, gruppo in forte crescita. E lo spazio globale richiede degli strumenti adatti per essere compreso a spiegarsi all’analisi: non si può pretendere di raccogliere l’acqua con le mani, ma serve un recipiente che permetta di farlo; per questo si cerca di inquadrare una città con appositi modelli, che riescano a fornire delle rappresentazioni sintetiche e nel contempo chiare. Fra gli altri, due modelli che includono Milano in una prospettiva di ampio respiro sono quello della blue banana e quello del “pentagono”: nel primo il capoluogo lombardo si situa al fondo di un’area ad altra concentrazione urbana, economica e industriale (in cui vivono circa 90 milioni di persone), a forma di banana, che parte dall’Inghilterra ed attraversa l’Europa centrale, mentre nel secondo esso è un vertice di una figura a cinque lati insieme a Londra, Parigi, Monaco ed Amburgo, che rappresenta il 20% della superficie dell’Unione Europea, il 40% della sua popolazione e il 50% della sua ricchezza; proprio quest’ultimo esempio ci permette di approdare al concetto di città-rete, forse uno dei modelli teorici più utili per inquadrare Milano.
Infatti la complessità della realtà milanese deve poggiare da un lato sulla visione di una città di dimensioni diverse e nuove, non più delimitata nei confini fisici, ma disseminata nella rete delle relazioni, avendo presente il continuo processo di shifting boundaries: la “rigidità” è stata sostituita da barriere osmotiche e variabili attraverso cui si passa con facilità; e lo spazio che si fruisce ogni giorno si configura sempre più come liminal space, ambiguo e declinabile, al limite mediano fra due stati differenti, caratterizzato dalla between-ness (pensiamo ad una edge city i cui bordi sono sbeccati e slabbrati). Dall'altro lato c’è il confronto con la ramificazione delle infrastrutture, come elemento strutturale della città policentrica, tale da rendere possibile una connessione o riconnessione di poli urbani capaci di mantenere la propria identità. Il ruolo del territorio assume rilevanza sempre maggiore, e in una città policentrica la periferia dovrebbe essere attraversata da nuove relazioni, da recentrages, cioè dovrebbe cambiare natura, cambiando anche la strategia degli investimenti economici e prospettando forse un nuovo modello di architettura. Anzi, il concetto stesso di periferia si erode; non c’è più la sovrapposizione fra definizione e immagine che essa rappresenta, tra i due è avvenuta una sfocatura irreparabile: il modello della rete, derivato dall’esempio biologico del sistema circolatorio, si rivela invece flessibile e al contempo solido per contenere la regione milanese, all’interno della quale agiscono flussi e si costituiscono altri centri ed hubs che creano continuamente nuovi spokes.
Lo sviluppo di nuovi centri a Milano, trova e continuerà a trovare un elemento privilegiato nella riconversione di aree industriali dismesse, testimonianza del passaggio da una società dell’industria ad una di terziario avanzato: il progetto Bicocca come esperienza di riaproppriazione pubblica di tale nuovo spazio aperto alla città e come luogo capace di aggregare forze, vita locale, energie che interagiscano con la realtà preesistente mi sembra rappresenti un caso interessante.
Un esempio paradigmatico: il quartiere e l’Università BicoccaLa trasformazione di 73 ettari dell’area di Pirelli-Bicocca in Sesto San Giovanni era stata indirizzata verso la realizzazione di un polo tecnologico, cioè un insediamento legato alle attività produttive, centro di ricerca, di sperimentazione e formazione nel campo dell’innovazione tecnologica. Questo era l’oggetto di un protocollo di intesa stipulato nel 1985 tra Pirelli, Comune, Provincia e Regione e tema del concorso che ha visto come vincitore Gregotti Associati. In realtà le cose negli anni successivi sono andate diversamente, e alla Bicocca hanno trovato posto la seconda Università Statale di Milano, una quota consistente di residenze, uffici, un centro policommerciale, un centro d’arte e il Teatro degli Arcimboldi, seguendo un processo di modifiche al Piano Regolatore e al bando iniziale del concorso di progettazione.
Lo slogan che ha "illuminato" tutto il processo di progettazione dell’area Bicocca è stato: costruire un centro storico della periferia. Non tanto un polo capace di autonomia rispetto al centro di Milano o altri centri, ma bensì in grado di stabilire con questi relazioni necessarie. Il presupposto si allineava con l’idea di restituzione all'uso pubblico delle grandi aree costituite dagli ex capannoni industriali. Gregotti ha commentato in un’intervista:
«Non credo di dover difendere un progetto che ha tutte le caratteristiche della funzionalità. Questo quartiere è diventato un vero polo esterno per la città. Costruito non con l'ottica monofunzionale di prima, ma con quella di una multipolarità, un concetto che prima era sconosciuto. E che invece è alla base del nuovo piano regolatore di Roma. Inoltre, è l'unico intervento urbano che è stato fatto a Milano da quarant'anni. Questo è importante. [...] L'Arcimboldi è nato per servire tutta l'area Nord della città, fino alla Svizzera. È e rimarrà un'ottima occasione per il bacino di tutto il Nord. Avrebbe un destino facilmente individuabile. Basta volerlo e avere i soldi. Come è noto i teatri non si mantengono da soli». In generale, Milano le piace? «In questa città da troppi anni trionfa la deregulation. È mancata la qualità. Non ci si è mai posti il problema del ridisegno urbano. Cioè di una strategia generale della città. Ci vorrebbero idee nuove e un piano regolatore rinnovato». Anche lei boccia le periferie? «Sono brutte come quelle di altre città. Non possono piacere alla gente perché sono monofunzionali e monoclasse. In pratica sono state costruite solo per essere quartieri dormitorio. Senza la possibilità di uno scambio tra le varie classi sociali. Proprio il contrario di ciò che ho fatto alla Bicocca. Dove ora c'è un teatro, un'area commerciale, una industriale e di servizi. La verità è che a Milano non si costruiscono edifici a basso costo da vent'anni. Mentre il costo degli affitti è diventato troppo alto».²
Per raccogliere delle testimonianze di utenti e fruitori del quartiere Bicocca, e nello specifico della sua Università, mi sono affidato a due strumenti: l’intervista e il Forum degli Studenti Bicocca (http://www.studentibicocca.it/portale/forum/). Quindi un metodo tradizionale della sociologia di fronte ad uno relativamente recente legato a nuove tecnologie; per quest’ultimo mi sono semplicemente iscritto al portale ed ho chiesto impressioni e commenti agli studenti sul loro luogo di studio ed il quartiere in cui questo si trova: gli interventi più significativi sono in allegato, ma è opportuno qui ricapitolare i temi ricorrenti o di maggior interesse per questa analisi.
Commenti positivi e negativi in linea generale si equivalgono, ma fra i due si riscontra una differenza fondamentale: chi lascia buone impressioni lo fa argomentando e spiegandone i motivi in modo accurato; soprattutto pesa il confronto con gli altri atenei milanesi, i quali sono percepiti decisamente inferiori per qualità degli spazi e dei servizi rispetto alla Bicocca. Questi studenti si dichiarano in qualche modo “esperti”, poiché hanno riconsiderato la loro opinione con il passare del tempo e si sono “affezionati” a questo luogo; inoltre c’è la decisa immagine di una Bicocca ancora giovane con ampi spazi per il miglioramento nel futuro, con possibilità di grandi cambiamenti, anche alla luce dei progressi qualitativi avvenuti negli ultimi anni. Chi si dichiara insoddisfatto, in genere, lo fa in modo superficiale; ad ogni modo i problemi costatati sono reali, e riguardano soprattutto la gestione logistica (mancanza di materiale didattico, disorganizzazione, mancanza di adeguate informazioni) e la qualità dello spazio (alcune aule non adatte allo studio o in numero troppo ridotto per la popolazione studentesca, corridoi poco funzionali, finiture mal realizzate); è cronica l’assenza di verde, ridotto ad arredo urbano, mentre la Collina dei Ciliegi, sbandierata come “polmone” del nuovo quartiere da committenti e progettisti, è ancora chiusa e del tutto sconosciuta agli studenti; la ripetitività degli edifici dà senso di unità e compiutezza, ma può risultare disorientante (solo il colore degli edifici ne indica la funzione) e per alcuni oppressiva. È apprezzata invece la vicinanza degli edifici universitari fra loro, in modo che gli spostamenti siano relativamente brevi e sia avvertita la presenza di un’unica comunità studentesca, mentre il legame con il passato industriale rimane soprattutto attraverso il nome storico Pirelli. Bisogna poi considerare che le critiche costruttive denotano anche un senso di appartenenza e di coinvolgimento, tipico di chi voglia migliorare la situazione di ciò per cui prova affezione.
Lo strumento del Forum mi sembra che qui richieda una lettura un po’ più dettagliata: con l’avvento di Internet nasce anche la possibilità dell’ e-working e del net-working; si crea un nuovo mondo virtuale che è a tutti gli effetti una realtà alternativa rispetto a quella fisica: il riferimento alla Silicon Valley viene spontaneo, in cui i residenti network but don’t connect, o alla città dei bits di cui parla Mitchell. Questo portale costituisce una comunità (community è ormai termine corrente nel web) che si situa in uno spazio-tempo altro rispetto al mondo fisico delle strutture universitarie in Sesto San Giovanni: è un mondo con regole sue proprie (per la sottoscrizione bisogna accettare determinate norme e vi è la possibilità di essere esclusi dal sito a causa di azioni scorrette), ognuno ha una identità che può rendere più o meno complessa e visibile, vi sono dei moderatori. Oltretutto la parola forum fa riferimento ad una delle forme più antiche di spazio pubblico, il foro romano. La metafora della rete qui trova una delle sue corrispondenze più pregnanti, e ci si potrebbe chiedere perché queste forme di interazione hanno notevole successo oggi, e quale sia la spinta che muove gli utenti a parteciparvi; per la scuola sociologica di Chicago la città è sia ordine morale per individui in cerca di riconoscimento, sia centro i agglomerazione per competitività e conquista. Ma di fronte a questo esempio la seconda teoria (generalizzandola hobbesianamente nell’homo homini lupus) non sembra reggere: la spinta aggregante, in questo caso, è di natura positiva. Perché migliaia di studenti (il Forum ha oltre 23000 utenti registrati) discutono, si scambiano opinioni, consigli o semplicemente passano il tempo in questo luogo iper-reale? Ovviamente l’incontro è più facile e immediato che nel mondo fisico, meno impegnativo, e per questo labile; l’uso del linguaggio scritto corredato da opportuni simboli implica l’instaurarsi di codici nuovi, ci si può esporre sia on-stage che in modalità backstage (cioè adottare un comportamento più formale tipico della vita in società, o mostrare lati nascosti e più intimi), vi è una facilità estrema nella creazione di maschere sociali con le quali rapportarsi; una realtà ancora più liquida per un uomo ancora più flessibile. Ma ancora non si spiega quale sia il bisogno di questi utenti e che conseguenze implichi lo strumento Forum all’interno dell’Università Bicocca: introdurrei per questo il concetto di capitale sociale. Bagnasco afferma:
«...il capitale sociale è l’attitudine a cooperare che deriva da una cultura cooperativa condivisa, capace di generare fiducia interpersonale diffusa. [...] ...sono capitale sociale le risorse per l’azione che derivano da un tessuto di relazioni cooperative in cui una persona è inserita. [...] ...si tratta dunque di relazioni che implicano un riconoscimento reciproco degli attori, ovvero un atteggiamento non puramente strumentale dell’interazione. [...] La rete di relazioni può essere attivata da un attore, e in questo senso costituisce una risorsa per la sua azione, ma al tempo stesso questa possibilità è basata su una proprietà specifica della rete, in quanto contesto di interazione. In questo senso il capitale sociale è un fenomeno strutturale...»³
Per chiarire meglio il concetto, indicatori chiave relativi al capitale sociale possono essere: numero dei volontari nelle istituzioni non profit, partecipazioni a riunioni di associazioni culturali o ricreative, numero di uscite con gli amici nel tempo libero, fiducia reciproca etc. È stato inevitabile confrontare l’esperienza delle mie visite “fisiche” in Bicocca con quelle “virtuali”: ho sperimentato una forte presenza di capitale sociale attraverso il web, forse più che tra i corridoi o le piazze dell’università; una rete fredda, ma, in termini di relazioni, senso di appartenenza, identità la comunità del Forum ha un forte potere aggregante, probabilmente maggiore che non la presenza sul luogo. È un capitale sociale di tipo “altro”; oltretutto la rete si configura come spazio facilmente accessibile e democratico. Ovviamente questo strumento non è di natura sostitutiva ed esente da problematiche ed effetti indesiderati, ma è da considerarsi nella sua importanza aggiuntiva: questi temi sono poi legati alla dicotomia Gesellschaft/Gemeinschaft: il primo concetto della società come istituzionale-organizzativa, il secondo come comunitaria e identitaria. L’Università Bicocca, e ancor meglio il suo Forum studentesco credo siano buoni esempi del secondo termine.
Overview: cosa c’è dietro l’angolo
Milano, nonostante alcuni esempi interessanti, sembra però una città (regione) in cerca di un regista, che sia capace di coordinare le innumerevoli spinte positive: manca una visione d’insieme con prospettive di lungo periodo che tutelino la vivibilità e l’interesse pubblico, ma soprattutto incanali in un’unica direzione gli sforzi di quest’area; bisogna affrontare con coscienza la sfida globale. Per di più la globalizzazione comporta differenziazione e specializzazione, e Milano conta eccellenze soprattutto nel campo tecnologico: c’è invece un appiattimento delle Università, che sono chiamate ad essere centro di conoscenza privilegiato, in un mondo in cui l’informazione riveste un ruolo cruciale, anche se non senza contraddizioni e derive preoccupanti; anzi la contraddizione e la complessità sono caratteristiche intrinseche al processo globale.
Rimane da capire chi possa guidare la regione milanese: innanzitutto la governance pretende un’intesa politica di tutta l’area, con comunione di interessi, prospettive e coinvolgimento: una cooperazione fra pubblico e privato è sicuramente una via di importanza notevole, ma il rischio è quello di cadere nel circolo vizioso della tecnocrazia o del predominio del mercato e dei dogmi dell’economia sulla visione prettamente politica. Consigli di zona e province sembrano organismi oramai inadatti per la realtà sin qui delineata: forse la figura di un organo amministratore della grande area metropolitana con ampie deleghe potrebbe rispondere meglio alle esigenze della società milanese; esempi di governance efficiente sono peraltro visibili in città come Lione, Barcellona, La Villette, Torino come testimonianza italiana, capaci di ridarsi un’identità e una serie di obiettivi chiari. Milano città-rete ha bisogno di infittire le sue maglie, di creare migliori connessioni e nuovi centri, poli specializzati che diano importanza al fattore umano e siano occasioni per noi “cacciatori di identità” di scoprirne o inventacene una: infatti una comunità deve necessariamente reggersi su rapporti face-to-face e sul capitale sociale; questo bene va curato e trattato come risorsa preziosa ed indispensabile, cercando di valorizzare l’aspetto sim-bolico (συμβαλλω) della civitas controllare quello dia-bolico (διαβαλλω).
Ma le pianificazioni di lungo termine sono adottate solo in alcuni casi, purché siano in funzione della merce-città, della possibilità che la città si venda bene e meglio, cioè di un potenziamento degli affari. Di interesse pubblico non si parla mai, o quasi. È questa una ideologia che negli ultimi trent'anni investe non solo Milano, ma tutto il centro Europa, dove magari i problemi sono stati affrontati più funzionalmente, restando tuttavia gli stessi: fuga dalla città a favore della periferia, città diffusa, etc. Lo sviluppo della città policentrica è un percorso disseminato di ostacoli, che a Milano sembrano particolarmente accentuati di fronte a una gestione delle aree dismesse - generate dalla crisi della grande industria e collocate in posizioni cruciali - che viene affrontata con soluzioni contingenti e svincolate da una visione strategica, in mancanza della quale si scontano le attuali ricadute sulle problematiche delle infrastrutture e del traffico caotico: una pianificazione strategica e nuove forme partecipative sono delle necessità.
La storia dell’urbanistica insegna che questa disciplina ha sempre convissuto con una doppia anima: la prima è quella di matrice utopica che inventa ex-novo una città ideale come risposta alla situazione del presente (fra gli altri Platone e gli utopisti del ‘500 e ‘600), la seconda è quella legata alla spinta tecnica che mira a risolvere problemi specifici di un hic et nunc (un esempio sono le misure adottate per migliorare la condizione della popolazione urbana inglese durante la rivoluzione industriale). Occorre cercare proprio nello spazio interstiziale fra queste due tendenze lo spunto per il confronto e per le possibili risposte adatte al nostro tempo; oggi una doppia visione si riscontra anche nelle categorie globale e locale: in un’epoca in cui i legami si fanno sempre più laschi e complessi la città diviene un punto d’incontro e di interazione fra spazio dei flussi e spazio dei luoghi; Martin Heidegger in “Costruire, abitare, pensare” sosteneva che il ponte, rivelando per antonomasia il carattere performativo dell’architettura, costruisse il luogo attraverso l’azione del collegare le opposte rive di uno stesso fiume: intendeva dire che l’architettura non è solo un simbolo. Al contrario, creandola, o sperimentandola, gli oggetti e le idee che fino a quel momento erano rimasti divisi gli uni dagli altri, o che si ritenevano in conflitto gli uni con gli altri, si univano a formare un’unica entità. Pensare al globale ed agire sul particolare: potremmo definire questa visione come glocality, in cui si uniscono due elementi (la chiara visione del fine, il telos, e l’azione mirata su di un problema) per ricavarne un terzo che non è la somma dei precedenti, ma qualcosa di differente, tramite un processo di Aufhebung, cioè l’abbandonare conservando. Probabilmente oggi manca soprattutto la volontà legata all’utopia; l’analisi etimologica del termine qui ci può aiutare: infatti c’è sia la componente del non (ου) luogo, ma anche del bel/buon (ευ) luogo. Se le prospettive sono quelle di una eutopia, credo valga la pena affrontare il rischio di mismatch, di una sintesi sbagliata, che deriva dall’incontro di due elementi opposti.
Restituire uno spazio dismesso alla comunità è un intervento positivo, indipendentemente dagli interessi di parte e dalle possibili speculazioni: ma soprattutto si tratta di un gesto, non di un segno casuale. Riprendendo la metafora iniziale, dietro il dipinto c’è l’artista Pollock, che ha voluto realizzarlo; mi sembra paradigmatico il fatto che un ex complesso industriale si sia trasformato anche in università: è questo infatti il luogo privilegiato di connessione, di conoscenza, di informazione, un possibile nuovo centro, un nodo importante della rete. Recentemente è stato annunciato il progetto di una Bicocca bis: abitazioni, alloggi per studenti, parchi e centro sportivo universitario, aule e laboratori per l’ateneo, esercizi commerciali e asilo, in risposta ai bisogni del quartiere; al di là di quello che verrà effettivamente realizzato, è utile tenere a mente che la città si configura sempre come un processo nel tempo e nello spazio. La Bicocca è condannata a migliorare: quando i bambini cresceranno ci sarà un quartiere diverso; in fondo, gli alberi hanno bisogno di crescere.
NOTE:
¹) da Focus Extra Città, n.30, pag. 105
²) da Repubblica del 5 giugno 2005
³) da A. Bagnasco, Società fuori squadra, Bologna, Il Mulino, 2003, pag. 24
BIBLIOGRAFIA:
-P. Perulli, La città. La società europea nello spazio globale, Milano, Mondadori, 2007
-A. Bagnasco, Società fuori squadra, Bologna, Il Mulino, 2003
-R. Sennett, Rispetto, Bologna, Il Mulino, 2004
-G. Simmel, Le metropoli e la vita dello spirito, Armando, 1995
-M. Augé, Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Eleuthera, 2005
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