29 November 2008

Fotogrammi Milanesi: Un Giro in Fiera


“I recline by the sills of the exquisite flexible doors,
and mark the outlet, and mark the relief and escape.”

W. Whitman, Song of Myself


La breve riflessione che intendo qui sviluppare prende il via dall’esperienza di una giornata alla Fiera di Rho-Pero, in occasione del Salone del Mobile, vista come pretesto per approfondire alcuni temi del corso di Antropologia Culturale: attraverso un veloce resoconto, corredato da materiale fotografico, e alcune riflessioni di carattere molto personale cercherò di mettere in luce qualche punto che ha sollevato in modo particolare il mio interesse, senza alcuna pretesa esaustiva.

Resoconto

Ore 13:15

Prendo l’auto per recarmi alla stazione di Lomazzo: mi trovo come al solito a mio agio nel guidare, quando non c’è coda; riesco a pensare e a rapportarmi a quanto vedo fuori dal finestrino. Eppure il ciglio della provinciale non dovrebbe possedere qualche attrattiva, ma ne sono comunque incuriosito.

Ore 13:43

Salgo sul treno dal binario 1 ed incontro un’amica che non vedo da mesi, con la quale chiacchiero per metà del viaggio: forse non sono più in un nonluogo... Arriva il controllore e timbra il biglietto. Ho tempo e voglia di riflettere sul paesaggio che scorre fuori dalla carrozza: l’architettura dismessa, i residui industriali mi sembrano sopravvissuti molto bene al tempo e trovo che abbiano molto da dire a chi li guardi; non così per le nuove palazzine che intravedo più o meno in lontananza. Sono imbarazzanti per me e per loro stesse, mi dico; non sono in grado di sostenere un dialogo con la ferrovia, e questo mi rattrista abbastanza. Dalla porta dello scompartimento giunge un ragazzo trasandato con un cartoncino spiegazzato in pugno: “Sono povero, ho 4 fratelli, datemi qualche soldo per mangiare, aiutatemi, grazie e buon viaggio.” Cerco di dissimulare il disagio e non ho la forza per fare nulla, tranne che rimanere seduto. Credo che nessuno gli abbia dato retta. Penso a quanto scrisse Simmel sullo spirito oggettivo nell’ambiente metropolitano, a come si sviluppino dei meccanismi di difesa del proprio equilibrio personale, al blasé.

Ore 14:20

Arrivo alla stazione Cadorna. Mi dirigo spedito verso l’imbocco della metropolitana, linea rossa, e compro un biglietto alle macchine automatiche; nel frattempo si avvicina un uomo di mezza età che mi chiede se posso fare un biglietto anche per lui. Evidentemente non è italiano. Sono subito insospettito dalla cosa, pensando a qualche fregatura, e mi faccio consegnare un euro prima di schiacciare il pulsante. Solo quando sono già sulla metro, dopo una decina di minuti, concludo che quell’uomo voleva soltanto che lo aiutassi a fare il biglietto.

Ore 14:56

Entro in Fiera dopo aver chiesto uno sconto studenti alla cassa: mi rendo conto dopo qualche attimo di aver sperimentato uno dei tanti dispositivi di sorveglianza alle soglie di ingresso dei (non)(super)luoghi della (sur)(post)modernità. Mentre giro per qualche padiglione del Salone, riesco solo a organizzare pensieri abbastanza banali, come il fatto che sia difficile orientarsi fra scale mobili uguali che portano agli stessi punti di ristoro con gli stessi panini in mostra; ci si possa muovere solo leggendo le indicazioni segniche dei troppi cartelli etc. La conferma è data da una signora che replica urlando al telefono a chi cerca di guidarla verso l’uscita, che i corridoi qui sono tutti principali.

Ore 18:03

Fiumi di persone si riversano all’uscita e, per evitare l’ingorgo, penso di dare un’occhiata agli edifici amministrativi del complesso: qui scopro un mondo completamente diverso. Dal troppo pieno sono passato al troppo vuoto; mi aggiro per halls enormi e vuote. Incontro anche una donna delle pulizie e mi rendo conto, seguendo Goffman, di essere nel tempo e nel luogo del back, dopo aver sperimentato il front. Decido di dirigermi alla metro e mi accodo ordinatamente fra le indicazioni degli addetti allo smaltimento umano: dopo venti minuti riesco a guadagnare un vagone e mi precipito nell’angolo in fondo a sinistra seguito da una ragazza che, come me, cerca il posto più tranquillo. Ci scambiamo uno sguardo di intesa.

Ore 18:52

Giungo in Galleria V. Emanuele e mi siedo all’interno di una istallazione realizzata in occasione del prossimo Expo insieme ad altre persone a guardare un video sul design; penso che qui e in questo momento mi trovo veramente in un luogo, ma anche che questa sensazione vive del contrasto con l’esperienza completamente differente in Fiera. Cerco di capire se la definizione di spazio pubblico sia ancora applicabile qui. Un nonno con nipote si incontrano alle sedie di fianco alla mia; sembra non si siano visti per qualche tempo. Più che altro stanno zitti e guardano lo schermo insieme a me godendosi l’atmosfera.

Ore 21

Partenza del treno da Cadorna. Due inglesi mi chiedono se si fermi a Bovisa. Qui sale un extracomunitario e so benissimo di sperare che non si sieda vicino a me. Prima di scendere a Lomazzo faccio in tempo ad avvertire un signore orientale che gli sono caduti gli occhiali sul pavimento mentre si era appisolato. Dopo l’arrivo in stazione riprendo la macchina e ritorno a casa passando ancora dalla provinciale.

Riflessione

L’idea di fiera è sempre stata presente nella cultura popolare, ma una forma organizzata, su base inizialmente nazionale e, da metà ‘800 internazionale, si ha solo nel 1798 con l’Esposizione Universale di Parigi, in cui si presentarono principalmente oggetti di uso quotidiano e che segnò la via per le successive edizioni, accomunate da un carattere espressamente festaiolo. Scrive Giedion:

“L’Ottocento segna il momento in cui lo svago dileguava dalla vita quotidiana. La capacità di svolgere una forma originale di Festival dileguò con esso. Durante la seconda metà dell’Ottocento le esposizioni diventarono i grandi festival della vita dei popoli. Magazzini, empori e palazzi per uffici rimasero strettamente condizionati da necessità pratiche. Le esposizioni avevano anch’esse una funzione pratica da assolvere; ma operavano in un ambiente fuori dal turbine della vita quotidiana, ed erano in grado di mantenere un carattere festaiolo. Fra i loro aspetti festaioli e quelli pratici o rappresentativi c’era sempre un netto contrasto. La sicurezza che si afferma nella costruzione dei grandi saloni non è trasposta, per esempio, nell’attrezzatura sociale dei loro interni. Ma, pur entro questi limiti, esse rappresentano il più riuscito tentativo del periodo, per creare una occasione originale di celebrazione collettiva.”

L’architettura delle esposizioni si rivelava un forte campo per la sperimentazione, per dare lustro alle conquiste dell’industria e stupire i paesi ospiti: la costruzione in vetro e metallo divenne il simbolo pionieristico del periodo; un esempio fra tutti fu il Chrystal Palace progettato da Joseph Paxton per l’Esposizione del 1851 a Londra. E a tal punto questa tipologia architettonica li legò al concetto stesso di fiera, che ora non si fatica a collegare il palazzo di cristallo alla struttura milanese di Fuksas: sembra che 150 anni siano inconsistenti; oltretutto fin dalle prime edizioni il problema del traffico e dell’accessibilità furono punti chiave per il successo dell’evento, esattamente come oggi, sebbene la fiera sia rivolta sempre più spesso ad un pubblico specializzato e tenda a perdere il carattere ostinatamente internazionale per radicarsi nell’immagine della città che la ospita. Se il carattere di svago e la tipologia architettonica sono alcuni degli elementi comuni che collegano l’odierno spazio della fiera ai suoi predecessori, dobbiamo essere coscienti che l’orizzonte nel quale queste due forme si inquadrano è profondamente differente: il concetto di esposizione concentrata in un luogo fisico preciso per un determinato periodo di tempo cade rovinosamente di fronte alle possibilità offerte dalle reti mediatiche, ed è chiaro che siamo di fronte ad una espressione dell’epoca dei flussi e dell’economia postfordista di non facile interpretazione. Per cercare di analizzare la Fiera di Rho-Pero introduciamo la categoria del superluogo.

Il neologismo superluoghi definisce alcuni spazi in cui funzioni urbane, infrastrutture e spazi serventi si sommano e creano una sinergia. Il concetto è di difficile definizione in quanto molto legato a interpretazioni derivanti dalle riflessioni sui nonluoghi di Marc Augé. Le funzioni in esso raccolte sono di carattere terziario, ludico e di intrattenimento, sempre legate a flussi di persone, investimenti ed informazioni. Ai flussi, generati dalle istanze poste dalla società contemporanea, si legano temi del consumo come affermazione del proprio status, alla capacità di spesa del tempo libero e al nuovo welfare generato dalla società del low-cost. Il territorio si trova segnato da questi elementi che, localizzati secondo strategie commerciali, lavorano per bacini d'utenza, così da evidenziare una nuova geografia, sovrapposta a quella del territorio fisico, che punteggia uno spazio liscio e continuo di polarità che creano e sfruttano flussi di utenti. La dirompente azione di presidio del territorio da parte delle attività commerciali e dello svago, vero fulcro della vita dell'uomo contemporaneo, segna lo spazio che può essere scomposto in più livelli, e permette di leggere il sistema distributivo in layers orientati a sfruttare bacini d'utenza diversi e legati a logiche sistemiche di elevata complessità, il cui equilibrio, dinamico per definizione, poiché connesso a flussi di merci e di consumatori, è sempre altalenante fra il presidio di quelli consolidati e l'attrazione di nuovi. La lettura dei diversi livelli porta alla creazione di sistemi territoriali, incentrati su figure puntuali che sono ripetute a segnare un territorio continuo, territorio che è chiamato a confrontarsi con la globalizzazione, intesa non con un carattere marcatamente massificante ed unificante, ma come fonte di differenziazione e scomposizione. Possono essere superluoghi aeroporti con funzione di hub, outlet commerciali, grandi parchi tematici, ed anche la Fiera di Rho-Pero; spazi legati alla mobilità e allo svago, che non sono più pensati solo come macchine efficienti ma come contenitori di numerose funzioni, veri motori delle trasformazioni urbane e del territorio. Alcuni sostengono che i superluoghi possiedano, al contrario dei nonluoghi, un carattere specifico, un genius loci, che consente loro di essere determinanti nel creare o trasformare l’identità di un territorio. Non si intende qui fornire risposte categoriche, ma mi limiterò a postulare alcune domande che mi sembrano paradigmatiche, ed abbozzare una riflessione sulla base dell’esperienza personale:

- che tipo di società rappresentano i superluoghi?
- può la nostra società farne a meno?
- cosa ci spinge a frequentarli?

Bauman scrisse che noi siamo cacciatori di identità, vogliamo riconoscere ed essere riconosciuti come individui e persone; tuttavia alle volte portare un’identità diventa un elemento che si vorrebbe abbandonare momentaneamente, per cercare dei luoghi in cui si possa trovare sollievo nel completo anonimato (credendo di essere senza legge, ordine, limite), nella non riconoscibilità. Ricordiamo anche, a livello di suggestione, la definizione di città weberiana, che trova il proprio limite esattamente nell’anonimia. Poter accantonare per un’ora, un giorno l’apparato che noi presentiamo agli altri nella vita quotidiana, con la consapevolezza di ritornare nella nostra identità una volta trascorsa questa parentesi spazio-temporale di evasione (non dimentichiamo che il termine persona in latino significa “maschera”). Infatti l’identità non deve essere concepita come un dato a priori, ma come una decisione, che permetteva di stabilire dei confini. E nei superluoghi, paradossalmente, ci si reca anche per questo: si percepisce che altri individui fruiscono lo stesso tipo di servizio (quasi sempre commerciale) sentendosi liberi di poter non rappresentare nulla per nessuno; si è poi più o meno consapevoli di sperimentare uno spazio pubblico simulato, solo all’apparenza libero e democratico, in realtà ipercontrollato e selettivo. Ci si sente sicuri qui. In un certo senso si esperiscono spazi “facili”, in cui gli unici problemi che possono sorgere sono causati dalla componente tecnologica e infrastrutturale, ad esempio ingorghi di traffico, e mai da cause relazionali. Si allarga quindi la possibilità di fruizione ad ampie fasce di popolazione (la quale di questo si rallegra), ma puramente con intento economico-commerciale. Ancora Bauman, ma con lui molti altri, da tempo indica il declino degli spazi pubblici e la conseguente individualizzazione dell’esperienza: con l’intenzione di confutare almeno in parte questa tesi mi sono recato in Fiera, ma qui non ho avuto altro che una conferma. È vero, tutto quello che ho trovato nega le caratteristiche peculiari dello spazio pubblico, in principio la socializzazione: eppure mi sono sentito a mio agio, per quanto ho esposto nelle righe precedenti e per quanto segue.

Infatti, ulteriore punto di attrazione è dato dal carattere occasionale della fruizione dei superluoghi: questi ci piacciono perché non ci andiamo tutti i giorni, ma rappresentano una fuga dal quotidiano, possiedono il fascino dell’evento, ed in questo si riallacciano a tutta l’analisi delle eterotopie foucaultiane. Entrano qui in gioco le categorie interpretative di Lefebvre dello spazio percepito e immaginato: l’esperire non è solo materiale, ma si carica di valori legati all’aspettativa ed al desiderio, tanto più nella società dei media di cui facciamo parte. Tuttavia nell’epoca postfordista (ma già Jünger ne parlava a proposito della modernità) il tempo libero, il nostro lasciapassare, senza il quale non abbiamo possibilità di entrata, è meno libero di quanto appaia. Sempre più mi sembra si approdi ad un tempo organizzato, in cui la libertà consista solo nello scegliere fra alcune opzioni date: la distinzione fra chi deve spostarsi, per lavoro ad esempio, e chi può spostarsi utilizzando il proprio tempo “libero” si fa sempre meno netta; anche da qui l’analisi di Castells che suddivide la società fra popolazione locale e le élites legate ai flussi e connesse in rete. È innegabile comunque che la gente si trovi relativamente bene nei superluoghi, altrimenti non li frequenterebbe: probabilmente queste visite attingono alla sfera dello status symbol, nel mondo odierno, in cui in molti casi la possibilità di acquisto è percepita come un valore fondamentale, e, nell’ottica del consumo la spesa economica equiparata allo svago può assolutamente appagare questo tipo di fruitori. Il vecchio piacere del flâneur di vagare per la città si sta addomesticando in un gioco che assomiglia ad una simulazione; ad ogni modo è con questo spirito baudeleriano che ho sperimentato lo spazio della Fiera, consapevole della mia osservazione partecipata.

Qui vorrei dare una svolta alla riflessione passando attraverso Goffman: egli parla di spazio situato, prendendo in prestito la metafora teatrale, per indicare con frame la cornice che include e limita una situazione, nella quale noi agiamo con determinati ruoli e maschere che scegliamo di indossare. Ma proprio il concetto di “situazione” mi ha ricordato le indagini e le idee, a volte pionieristiche, a volte estreme del gruppo situazionista. L’analisi del Situazionismo che qui ci interessa (fra i cui principali esponenti ricordiamo Guy Debord, Asger Jorn e Constant) riguarda la visione dell’architettura e dell’“urbanismo unitario,” e, nello specifico, l’attenzione rivolta all’atmosfera della città e al suo carattere geopolitico, costruiti in uno spazio sociale caratterizzato da espressioni nomadiche e in trasformazione. Il gruppo metteva in scena situazioni, in termini di esperienze ed ambienti vissuti, come campo di ricerca sulle relazioni fra luoghi ed emozioni. La mappa, divenuta simbolo del movimento durato dal 1957 al 1972, dal titolo Naked City è un assemblaggio di frammenti, il cui montaggio rispecchia una topografia urbana proiettata in un panorama sociale ed affettivo. Questa è stata composta con diciannove ritagli di una mappa di Parigi che, essendo passata attraverso un processo di détournement volto a creare nuove relazioni fra i luoghi della città ed i suoi abitanti-spettatori, è ricomposta con frecce direzionali di colore rosso che connettono le varie parti. Le frecce sono intese come plaques tournantes che descrivono l’orientarsi del soggetto che sperimenta diversi ambienti psicogeografici e “unità d’atmosfera”; queste inoltre indicano il grado di coinvolgimento (e)mozionale di chi ha redatto la mappa. È chiaro qui l’intento di accentuare ed evidenziare il carattere sequenziale dell’architettura, tanto da avvicinarla, attraverso il concetto di montaggio, alla pratica cinematografica: d’altronde fu Ejsenstejn che dichiarò l’architettura essere l’arte più vicina al cinema, e da qui ho impostato il titolo, che riprende l’idea di fotogramma come parte, frammento, di una narrazione sequenziale, pur essendo dotato di unità autonoma.

Guy Debord, 1955, "Psychogeographic guide of Paris: edited by the Bauhaus Imaginiste Printed in Dermark by Permild & Rosengreen - Discourse on the passions of love: psychogeographic descents of drifting and localisation of ambient unities"

Infatti, se andiamo ad indagare l’origine del titolo della mappa di Debord e Jorn rintracciamo il film noir del 1948 The Naked City diretto da Jules Dassin, dello stesso periodo delle indagini neorealiste italiane: nel lungometraggio la città di New York diviene la vera protagonista durante una caccia all’uomo da parte di un detective costretto ad esplorare a piedi alcuni ambienti urbani in una vera promenade dal valore cinestetico. La città, seguendo il corollario che conclude il film, può ospitare milioni di storie, e lo spettatore ne ha seguita soltanto una: qui New York non è solo la location di un evento, ma diviene essa stessa soggetto essenziale capace di contenere sé stessa e racconti potenzialmente infiniti. Ma perché questo accada essa deve essere nuda: chi la sperimenta è guidato dal desiderio. Si stabilisce qui una relazione fondamentale fra architettura ed esperienza del corpo umano: la città crea delle aspettative, dei desideri che hanno assolutamente a che fare con la percezione sensuale, e principalmente erotica; corpo umano e corpo urbano si sovrappongono creando uno spazio liminale attrattivo per l’instaurarsi di milioni di storie. Per questo il sottotitolo della mappa situazionista è Discours sur les passions de l’amour. Riecheggia qui un sottotitolo del film Sunrise di Murnau: “Leave all that behind... come to the city!”

Questa adesione all’entità della città ricorda quel che affermava Susan Sontag a proposito della fotografia: “il pittore costruisce, il fotografo rivela. In altri termini, l’identificazione del suo soggetto è sempre alla base della nostra percezione della fotografia, cosa che non avviene necessariamente in un quadro.” Mentre il fotografo Coburn: “L’altro giorno mentre risalivo il porto di New York a bordo di un transatlantico, ho pensato alla profonda affinità che esiste tra la mente di colui che creò questi giganteschi mostri simili a marziani - i ponti a sospensione - e quella dei fotografi della nuova scuola (si riferisce qui a Stieglitz e al gruppo di Camera Work).” Oppure il pittore John Marin riguardo al fascino subito dalla metropoli newyorkese: “Dobbiamo sentire la vita di una grande città solo negli uomini e negli animali che popolano le sue strade e le sue case? E gli edifici, sono essi forse morti? Ci è stato detto che un’opera d’arte è una cosa vivente. Non si può creare un’opera d’arte finché le cose che vediamo non corrispondono a qualcosa che è in noi stessi. Perciò se questi edifici destano in me un’intima commozione devono essi stessi avere vita. Tutta la città vive... È questo mio movimento interiore che io cerco di esprimere. Vedo all’opera grandi forze... i diversi volumi agiscono uno sull’altro... si scatenano sensazioni che mi dànno il desiderio di esprimere l’effetto di queste forze incalzanti.” Il punto a cui volevo giungere è proprio questo: di fronte a tali esperienze non si resta indifferenti, ma, in un certo senso, ci si sente partecipi del destino che accomuna uomini, edifici, città, metropoli; si percepisce una ricerca di extra-ordinarietà.

Conclusione aperta

Castells ha parlato di architettura nuda riferendosi alla tendenza odierna verso l’isolamento dell’esperienza, alla solitudine dell’individuo, rinforzata da un tipo di architettura pensata esplicitamente per questo scopo: vorrei allora ribaltare e valorizzare il significato di nudità, prendendo a prestito la Naked City dei situazionisti. Riconoscere e sfruttare dei nuovi tipi di attrattiva dello spazio urbano potrebbe essere un modo per rispondere ai bisogni della società odierna, accettando la contraddizione come elemento sine qua non sia per quanto riguarda la tematica identitaria, sia il concetto stesso di città e di metropoli.


“...straordinaria profondità dell’esperienza, sia pur essa di gioia, di malinconia e di adesione completa.” Kevin Lynch riferendosi alla città

“In un mondo isolato non ci si può esiliare.” Guy Debord in Panegirico

“Notre nature est dans le mouvement... La seule chose qui nous console de nos misères est le divertissement.” Blaise Pascal



Bibliografia essenziale:

-Giedion, Siegfried, Spazio, Tempo Architettura, Hoepli, Milano, 1989
-M. Agnoletto, A. Delpiano, M Guerzoni (a cura di), La civiltà dei superluoghi, Damiani, Bologna, 2007
-Augé, Marc, Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Eleuthera, Milano, 1992
-Simmel, Georg, La metropoli e la vita dello spirito, 1903

26 November 2008

Bicocca: un ponte glocale in costruzione




































Ecce Milano


L’immagine in copertina rappresenta una sovrapposizione fra una mappa dell’area padana intorno a Milano e un’opera del pittore americano Jackson Pollock: all’inizio di questa analisi è necessario riepilogare brevemente cosa sia oggi Milano, come possa essere rappresentata e quali siano le sue principali caratteristiche e tendenze; questa sovrapposizione mi sembra possa indicare la complessità di un territorio legato a concetti come transito di flussi, rete, recentrages: a prima vista quest’area sembra un’amalgama denso frutto di una certa arbitrarietà e casualità, proprio come i segni di Pollock. Tuttavia, senza negarne la conflittualità e contraddizione, è possibile evidenziare alcuni dei fenomeni che si delineano con più chiarezza. Milano non è solo una città, ma una city region: è una regione urbana, che diffonde la sua influenza su molte delle province lombarde e che conta una popolazione di 7 milioni di abitanti: da Lodi al confine svizzero, da Novara a Bergamo e Brescia. A Milano, il posto in cui si vive, sempre più raramente corrisponde a quello dove si passa la maggior parte della giornata: lo spazio fisico convive con la realtà dei flussi, l’esperienza della liquid modernity di Zygmunt Bauman; Martinotti a questo proposito distingue tre categorie di fruitori della realtà metropolitana: la popolazione di residenti, ormai residuale, i pendolari e i city users, gruppo in forte crescita. E lo spazio globale richiede degli strumenti adatti per essere compreso a spiegarsi all’analisi: non si può pretendere di raccogliere l’acqua con le mani, ma serve un recipiente che permetta di farlo; per questo si cerca di inquadrare una città con appositi modelli, che riescano a fornire delle rappresentazioni sintetiche e nel contempo chiare. Fra gli altri, due modelli che includono Milano in una prospettiva di ampio respiro sono quello della blue banana e quello del “pentagono”: nel primo il capoluogo lombardo si situa al fondo di un’area ad altra concentrazione urbana, economica e industriale (in cui vivono circa 90 milioni di persone), a forma di banana, che parte dall’Inghilterra ed attraversa l’Europa centrale, mentre nel secondo esso è un vertice di una figura a cinque lati insieme a Londra, Parigi, Monaco ed Amburgo, che rappresenta il 20% della superficie dell’Unione Europea, il 40% della sua popolazione e il 50% della sua ricchezza; proprio quest’ultimo esempio ci permette di approdare al concetto di città-rete, forse uno dei modelli teorici più utili per inquadrare Milano.

Infatti la complessità della realtà milanese deve poggiare da un lato sulla visione di una città di dimensioni diverse e nuove, non più delimitata nei confini fisici, ma disseminata nella rete delle relazioni, avendo presente il continuo processo di shifting boundaries: la “rigidità” è stata sostituita da barriere osmotiche e variabili attraverso cui si passa con facilità; e lo spazio che si fruisce ogni giorno si configura sempre più come liminal space, ambiguo e declinabile, al limite mediano fra due stati differenti, caratterizzato dalla between-ness (pensiamo ad una edge city i cui bordi sono sbeccati e slabbrati). Dall'altro lato c’è il confronto con la ramificazione delle infrastrutture, come elemento strutturale della città policentrica, tale da rendere possibile una connessione o riconnessione di poli urbani capaci di mantenere la propria identità. Il ruolo del territorio assume rilevanza sempre maggiore, e in una città policentrica la periferia dovrebbe essere attraversata da nuove relazioni, da recentrages, cioè dovrebbe cambiare natura, cambiando anche la strategia degli investimenti economici e prospettando forse un nuovo modello di architettura. Anzi, il concetto stesso di periferia si erode; non c’è più la sovrapposizione fra definizione e immagine che essa rappresenta, tra i due è avvenuta una sfocatura irreparabile: il modello della rete, derivato dall’esempio biologico del sistema circolatorio, si rivela invece flessibile e al contempo solido per contenere la regione milanese, all’interno della quale agiscono flussi e si costituiscono altri centri ed hubs che creano continuamente nuovi spokes.


Lo sviluppo di nuovi centri a Milano, trova e continuerà a trovare un elemento privilegiato nella riconversione di aree industriali dismesse, testimonianza del passaggio da una società dell’industria ad una di terziario avanzato: il progetto Bicocca come esperienza di riaproppriazione pubblica di tale nuovo spazio aperto alla città e come luogo capace di aggregare forze, vita locale, energie che interagiscano con la realtà preesistente mi sembra rappresenti un caso interessante.

Un esempio paradigmatico: il quartiere e l’Università Bicocca

La trasformazione di 73 ettari dell’area di Pirelli-Bicocca in Sesto San Giovanni era stata indirizzata verso la realizzazione di un polo tecnologico, cioè un insediamento legato alle attività produttive, centro di ricerca, di sperimentazione e formazione nel campo dell’innovazione tecnologica. Questo era l’oggetto di un protocollo di intesa stipulato nel 1985 tra Pirelli, Comune, Provincia e Regione e tema del concorso che ha visto come vincitore Gregotti Associati. In realtà le cose negli anni successivi sono andate diversamente, e alla Bicocca hanno trovato posto la seconda Università Statale di Milano, una quota consistente di residenze, uffici, un centro policommerciale, un centro d’arte e il Teatro degli Arcimboldi, seguendo un processo di modifiche al Piano Regolatore e al bando iniziale del concorso di progettazione.
Lo slogan che ha "illuminato" tutto il processo di progettazione dell’area Bicocca è stato: costruire un centro storico della periferia. Non tanto un polo capace di autonomia rispetto al centro di Milano o altri centri, ma bensì in grado di stabilire con questi relazioni necessarie. Il presupposto si allineava con l’idea di restituzione all'uso pubblico delle grandi aree costituite dagli ex capannoni industriali. Gregotti ha commentato in un’intervista:

«Non credo di dover difendere un progetto che ha tutte le caratteristiche della funzionalità. Questo quartiere è diventato un vero polo esterno per la città. Costruito non con l'ottica monofunzionale di prima, ma con quella di una multipolarità, un concetto che prima era sconosciuto. E che invece è alla base del nuovo piano regolatore di Roma. Inoltre, è l'unico intervento urbano che è stato fatto a Milano da quarant'anni. Questo è importante. [...] L'Arcimboldi è nato per servire tutta l'area Nord della città, fino alla Svizzera. È e rimarrà un'ottima occasione per il bacino di tutto il Nord. Avrebbe un destino facilmente individuabile. Basta volerlo e avere i soldi. Come è noto i teatri non si mantengono da soli». In generale, Milano le piace? «In questa città da troppi anni trionfa la deregulation. È mancata la qualità. Non ci si è mai posti il problema del ridisegno urbano. Cioè di una strategia generale della città. Ci vorrebbero idee nuove e un piano regolatore rinnovato». Anche lei boccia le periferie? «Sono brutte come quelle di altre città. Non possono piacere alla gente perché sono monofunzionali e monoclasse. In pratica sono state costruite solo per essere quartieri dormitorio. Senza la possibilità di uno scambio tra le varie classi sociali. Proprio il contrario di ciò che ho fatto alla Bicocca. Dove ora c'è un teatro, un'area commerciale, una industriale e di servizi. La verità è che a Milano non si costruiscono edifici a basso costo da vent'anni. Mentre il costo degli affitti è diventato troppo alto».²

Per raccogliere delle testimonianze di utenti e fruitori del quartiere Bicocca, e nello specifico della sua Università, mi sono affidato a due strumenti: l’intervista e il Forum degli Studenti Bicocca (http://www.studentibicocca.it/portale/forum/). Quindi un metodo tradizionale della sociologia di fronte ad uno relativamente recente legato a nuove tecnologie; per quest’ultimo mi sono semplicemente iscritto al portale ed ho chiesto impressioni e commenti agli studenti sul loro luogo di studio ed il quartiere in cui questo si trova: gli interventi più significativi sono in allegato, ma è opportuno qui ricapitolare i temi ricorrenti o di maggior interesse per questa analisi.
Commenti positivi e negativi in linea generale si equivalgono, ma fra i due si riscontra una differenza fondamentale: chi lascia buone impressioni lo fa argomentando e spiegandone i motivi in modo accurato; soprattutto pesa il confronto con gli altri atenei milanesi, i quali sono percepiti decisamente inferiori per qualità degli spazi e dei servizi rispetto alla Bicocca. Questi studenti si dichiarano in qualche modo “esperti”, poiché hanno riconsiderato la loro opinione con il passare del tempo e si sono “affezionati” a questo luogo; inoltre c’è la decisa immagine di una Bicocca ancora giovane con ampi spazi per il miglioramento nel futuro, con possibilità di grandi cambiamenti, anche alla luce dei progressi qualitativi avvenuti negli ultimi anni. Chi si dichiara insoddisfatto, in genere, lo fa in modo superficiale; ad ogni modo i problemi costatati sono reali, e riguardano soprattutto la gestione logistica (mancanza di materiale didattico, disorganizzazione, mancanza di adeguate informazioni) e la qualità dello spazio (alcune aule non adatte allo studio o in numero troppo ridotto per la popolazione studentesca, corridoi poco funzionali, finiture mal realizzate); è cronica l’assenza di verde, ridotto ad arredo urbano, mentre la Collina dei Ciliegi, sbandierata come “polmone” del nuovo quartiere da committenti e progettisti, è ancora chiusa e del tutto sconosciuta agli studenti; la ripetitività degli edifici dà senso di unità e compiutezza, ma può risultare disorientante (solo il colore degli edifici ne indica la funzione) e per alcuni oppressiva. È apprezzata invece la vicinanza degli edifici universitari fra loro, in modo che gli spostamenti siano relativamente brevi e sia avvertita la presenza di un’unica comunità studentesca, mentre il legame con il passato industriale rimane soprattutto attraverso il nome storico Pirelli. Bisogna poi considerare che le critiche costruttive denotano anche un senso di appartenenza e di coinvolgimento, tipico di chi voglia migliorare la situazione di ciò per cui prova affezione.
Lo strumento del Forum mi sembra che qui richieda una lettura un po’ più dettagliata: con l’avvento di Internet nasce anche la possibilità dell’ e-working e del net-working; si crea un nuovo mondo virtuale che è a tutti gli effetti una realtà alternativa rispetto a quella fisica: il riferimento alla Silicon Valley viene spontaneo, in cui i residenti network but don’t connect, o alla città dei bits di cui parla Mitchell. Questo portale costituisce una comunità (community è ormai termine corrente nel web) che si situa in uno spazio-tempo altro rispetto al mondo fisico delle strutture universitarie in Sesto San Giovanni: è un mondo con regole sue proprie (per la sottoscrizione bisogna accettare determinate norme e vi è la possibilità di essere esclusi dal sito a causa di azioni scorrette), ognuno ha una identità che può rendere più o meno complessa e visibile, vi sono dei moderatori. Oltretutto la parola forum fa riferimento ad una delle forme più antiche di spazio pubblico, il foro romano. La metafora della rete qui trova una delle sue corrispondenze più pregnanti, e ci si potrebbe chiedere perché queste forme di interazione hanno notevole successo oggi, e quale sia la spinta che muove gli utenti a parteciparvi; per la scuola sociologica di Chicago la città è sia ordine morale per individui in cerca di riconoscimento, sia centro i agglomerazione per competitività e conquista. Ma di fronte a questo esempio la seconda teoria (generalizzandola hobbesianamente nell’homo homini lupus) non sembra reggere: la spinta aggregante, in questo caso, è di natura positiva. Perché migliaia di studenti (il Forum ha oltre 23000 utenti registrati) discutono, si scambiano opinioni, consigli o semplicemente passano il tempo in questo luogo iper-reale? Ovviamente l’incontro è più facile e immediato che nel mondo fisico, meno impegnativo, e per questo labile; l’uso del linguaggio scritto corredato da opportuni simboli implica l’instaurarsi di codici nuovi, ci si può esporre sia on-stage che in modalità backstage (cioè adottare un comportamento più formale tipico della vita in società, o mostrare lati nascosti e più intimi), vi è una facilità estrema nella creazione di maschere sociali con le quali rapportarsi; una realtà ancora più liquida per un uomo ancora più flessibile. Ma ancora non si spiega quale sia il bisogno di questi utenti e che conseguenze implichi lo strumento Forum all’interno dell’Università Bicocca: introdurrei per questo il concetto di capitale sociale. Bagnasco afferma:

«...il capitale sociale è l’attitudine a cooperare che deriva da una cultura cooperativa condivisa, capace di generare fiducia interpersonale diffusa. [...] ...sono capitale sociale le risorse per l’azione che derivano da un tessuto di relazioni cooperative in cui una persona è inserita. [...] ...si tratta dunque di relazioni che implicano un riconoscimento reciproco degli attori, ovvero un atteggiamento non puramente strumentale dell’interazione. [...] La rete di relazioni può essere attivata da un attore, e in questo senso costituisce una risorsa per la sua azione, ma al tempo stesso questa possibilità è basata su una proprietà specifica della rete, in quanto contesto di interazione. In questo senso il capitale sociale è un fenomeno strutturale...»³

Per chiarire meglio il concetto, indicatori chiave relativi al capitale sociale possono essere: numero dei volontari nelle istituzioni non profit, partecipazioni a riunioni di associazioni culturali o ricreative, numero di uscite con gli amici nel tempo libero, fiducia reciproca etc. È stato inevitabile confrontare l’esperienza delle mie visite “fisiche” in Bicocca con quelle “virtuali”: ho sperimentato una forte presenza di capitale sociale attraverso il web, forse più che tra i corridoi o le piazze dell’università; una rete fredda, ma, in termini di relazioni, senso di appartenenza, identità la comunità del Forum ha un forte potere aggregante, probabilmente maggiore che non la presenza sul luogo. È un capitale sociale di tipo “altro”; oltretutto la rete si configura come spazio facilmente accessibile e democratico. Ovviamente questo strumento non è di natura sostitutiva ed esente da problematiche ed effetti indesiderati, ma è da considerarsi nella sua importanza aggiuntiva: questi temi sono poi legati alla dicotomia Gesellschaft/Gemeinschaft: il primo concetto della società come istituzionale-organizzativa, il secondo come comunitaria e identitaria. L’Università Bicocca, e ancor meglio il suo Forum studentesco credo siano buoni esempi del secondo termine.

Overview: cosa c’è dietro l’angolo

Milano, nonostante alcuni esempi interessanti, sembra però una città (regione) in cerca di un regista, che sia capace di coordinare le innumerevoli spinte positive: manca una visione d’insieme con prospettive di lungo periodo che tutelino la vivibilità e l’interesse pubblico, ma soprattutto incanali in un’unica direzione gli sforzi di quest’area; bisogna affrontare con coscienza la sfida globale. Per di più la globalizzazione comporta differenziazione e specializzazione, e Milano conta eccellenze soprattutto nel campo tecnologico: c’è invece un appiattimento delle Università, che sono chiamate ad essere centro di conoscenza privilegiato, in un mondo in cui l’informazione riveste un ruolo cruciale, anche se non senza contraddizioni e derive preoccupanti; anzi la contraddizione e la complessità sono caratteristiche intrinseche al processo globale.
Rimane da capire chi possa guidare la regione milanese: innanzitutto la governance pretende un’intesa politica di tutta l’area, con comunione di interessi, prospettive e coinvolgimento: una cooperazione fra pubblico e privato è sicuramente una via di importanza notevole, ma il rischio è quello di cadere nel circolo vizioso della tecnocrazia o del predominio del mercato e dei dogmi dell’economia sulla visione prettamente politica. Consigli di zona e province sembrano organismi oramai inadatti per la realtà sin qui delineata: forse la figura di un organo amministratore della grande area metropolitana con ampie deleghe potrebbe rispondere meglio alle esigenze della società milanese; esempi di governance efficiente sono peraltro visibili in città come Lione, Barcellona, La Villette, Torino come testimonianza italiana, capaci di ridarsi un’identità e una serie di obiettivi chiari. Milano città-rete ha bisogno di infittire le sue maglie, di creare migliori connessioni e nuovi centri, poli specializzati che diano importanza al fattore umano e siano occasioni per noi “cacciatori di identità” di scoprirne o inventacene una: infatti una comunità deve necessariamente reggersi su rapporti face-to-face e sul capitale sociale; questo bene va curato e trattato come risorsa preziosa ed indispensabile, cercando di valorizzare l’aspetto sim-bolico (συμβαλλω) della civitas controllare quello dia-bolico (διαβαλλω).
Ma le pianificazioni di lungo termine sono adottate solo in alcuni casi, purché siano in funzione della merce-città, della possibilità che la città si venda bene e meglio, cioè di un potenziamento degli affari. Di interesse pubblico non si parla mai, o quasi. È questa una ideologia che negli ultimi trent'anni investe non solo Milano, ma tutto il centro Europa, dove magari i problemi sono stati affrontati più funzionalmente, restando tuttavia gli stessi: fuga dalla città a favore della periferia, città diffusa, etc. Lo sviluppo della città policentrica è un percorso disseminato di ostacoli, che a Milano sembrano particolarmente accentuati di fronte a una gestione delle aree dismesse - generate dalla crisi della grande industria e collocate in posizioni cruciali - che viene affrontata con soluzioni contingenti e svincolate da una visione strategica, in mancanza della quale si scontano le attuali ricadute sulle problematiche delle infrastrutture e del traffico caotico: una pianificazione strategica e nuove forme partecipative sono delle necessità.
La storia dell’urbanistica insegna che questa disciplina ha sempre convissuto con una doppia anima: la prima è quella di matrice utopica che inventa ex-novo una città ideale come risposta alla situazione del presente (fra gli altri Platone e gli utopisti del ‘500 e ‘600), la seconda è quella legata alla spinta tecnica che mira a risolvere problemi specifici di un hic et nunc (un esempio sono le misure adottate per migliorare la condizione della popolazione urbana inglese durante la rivoluzione industriale). Occorre cercare proprio nello spazio interstiziale fra queste due tendenze lo spunto per il confronto e per le possibili risposte adatte al nostro tempo; oggi una doppia visione si riscontra anche nelle categorie globale e locale: in un’epoca in cui i legami si fanno sempre più laschi e complessi la città diviene un punto d’incontro e di interazione fra spazio dei flussi e spazio dei luoghi; Martin Heidegger in “Costruire, abitare, pensare” sosteneva che il ponte, rivelando per antonomasia il carattere performativo dell’architettura, costruisse il luogo attraverso l’azione del collegare le opposte rive di uno stesso fiume: intendeva dire che l’architettura non è solo un simbolo. Al contrario, creandola, o sperimentandola, gli oggetti e le idee che fino a quel momento erano rimasti divisi gli uni dagli altri, o che si ritenevano in conflitto gli uni con gli altri, si univano a formare un’unica entità. Pensare al globale ed agire sul particolare: potremmo definire questa visione come glocality, in cui si uniscono due elementi (la chiara visione del fine, il telos, e l’azione mirata su di un problema) per ricavarne un terzo che non è la somma dei precedenti, ma qualcosa di differente, tramite un processo di Aufhebung, cioè l’abbandonare conservando. Probabilmente oggi manca soprattutto la volontà legata all’utopia; l’analisi etimologica del termine qui ci può aiutare: infatti c’è sia la componente del non (ου) luogo, ma anche del bel/buon (ευ) luogo. Se le prospettive sono quelle di una eutopia, credo valga la pena affrontare il rischio di mismatch, di una sintesi sbagliata, che deriva dall’incontro di due elementi opposti.
Restituire uno spazio dismesso alla comunità è un intervento positivo, indipendentemente dagli interessi di parte e dalle possibili speculazioni: ma soprattutto si tratta di un gesto, non di un segno casuale. Riprendendo la metafora iniziale, dietro il dipinto c’è l’artista Pollock, che ha voluto realizzarlo; mi sembra paradigmatico il fatto che un ex complesso industriale si sia trasformato anche in università: è questo infatti il luogo privilegiato di connessione, di conoscenza, di informazione, un possibile nuovo centro, un nodo importante della rete. Recentemente è stato annunciato il progetto di una Bicocca bis: abitazioni, alloggi per studenti, parchi e centro sportivo universitario, aule e laboratori per l’ateneo, esercizi commerciali e asilo, in risposta ai bisogni del quartiere; al di là di quello che verrà effettivamente realizzato, è utile tenere a mente che la città si configura sempre come un processo nel tempo e nello spazio. La Bicocca è condannata a migliorare: quando i bambini cresceranno ci sarà un quartiere diverso; in fondo, gli alberi hanno bisogno di crescere.


NOTE:

¹) da Focus Extra Città, n.30, pag. 105
²) da Repubblica del 5 giugno 2005
³) da A. Bagnasco, Società fuori squadra, Bologna, Il Mulino, 2003, pag. 24


BIBLIOGRAFIA:

-P. Perulli, La città. La società europea nello spazio globale, Milano, Mondadori, 2007
-A. Bagnasco, Società fuori squadra, Bologna, Il Mulino, 2003
-R. Sennett, Rispetto, Bologna, Il Mulino, 2004
-G. Simmel, Le metropoli e la vita dello spirito, Armando, 1995
-M. Augé, Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Eleuthera, 2005