03 August 2006

Il paradosso surmoderno

Highway Crossing
Photo by JanneM

Riconoscersi nei nonluoghi
o rifugiarsi tra le rovine e l'arte


TRUDE

“Se toccando terra a Trude non avessi letto il nome della città scritto a grandi lettere, avrei creduto d'essere arrivato allo stesso aeroporto da cui ero partito. I sobborghi che mi fecero attraversare non erano diversi da quegli altri, con le stesse case gialline e verdoline. Seguendo le stesse frecce si girava le stesse aiole delle stesse piazze. Le vie del centro mettevano in mostra mercanzie imballaggi insegne che non cambiavano in nulla. Era la prima volta che venivo a Trude, ma conoscevo già l'albergo in cui mi capitò di scendere; avevo già sentito e detto i miei dialoghi con compratori e venditori di ferraglia; altre giornate uguali a quella erano finite guardando attraverso gli stessi bicchieri gli stessi ombelichi che ondeggiavano. Perché venire a Trude? mi chiedevo. E già volevo ripartire. - Puoi riprendere il volo quando vuoi, - mi dissero, - ma arriverai a un'altra Trude, uguale punto per punto, il mondo è ricoperto da un'unica Trude che non comincia e non finisce, cambia solo il nome all'aeroporto.”

Italo Calvino – Le città invisibili (città continue)

SURMODERNITA’

Il concetto di surmodernità, così come quello di nonluoghi, è stato formulato dall’antropologo francese Marc Augé, africanista di formazione, che da anni si occupa di etnologia nelle società complesse.
“Quello che non mi piaceva nel termine “postmoderno”, è questo aspetto di decadenza, di rottura con un’idealità perduta. Se ho parlato di surmodernità è per sottolineare che non si tratta solo di una disgiunzione, ma anche di una continuità. Pensavo soprattutto al termine “sovradeterminazione” presente in Freud e in Althusser, che descrive una situazione troppo complessa per essere interpretata in un unico modo. I fattori principali di questa complicazione possono essere distinti in tre eccessi. C’è innanzitutto un eccesso di temporalità che si traduce in una sovrabbondanza di elementi: l’accelerazione delle fasi storiche è amplificata dall’allungamento medio della durata della vita. C’è poi un eccesso di individualità: se la modernità aveva già decantato l’individuo come l’avvento del soggetto intraprendente, padrone di sé, questa tendenza si radicalizza nella surmodernità. L’individualità diviene il punto di riferimento per eccellenza, o per dirlo in altre parole, i punti di riferimento stessi si individualizzano. La società di consumo che domina questa surmodernità si indirizza direttamente all’individuo e alla sua apparente libertà di scelta. In terzo luogo, si può parlare di un eccesso di spazialità: il territorio, calcato dai piedi dell’uomo, si allarga e paradossalmente questo determina un restringimento dello spazio. Se un extraterrestre ci vedesse da lontano, vedrebbe una folle agitazione intorno a questo piccolo pianeta, dei satelliti che circolano senza tregua intorno alla terra, gli aerei (una città di 700 000 abitanti vola ogni giorno sopra il suolo americano), una febbrilità costante...
L'eccessiva informazione mediatica, il venire a conoscenza ogni giorno di una serie di avvenimenti storici importanti, sarebbe l'accelerazione della storia. Se avvenimenti di rilevanza storica nei secoli precedenti avevano un tempo di mesi o di anni, oggi siamo sottoposti ad un tempestivo e non selezionato stillicidio di informazioni che hanno la pretesa di sembrare fondamentali, e che accelerano il concetto stesso di storia e del corso del tempo. Se il tempo accelera il passo, lo spazio si restringe. Lo sviluppo dei mezzi di trasporto permette spostamenti sempre più brevi, ma non solo: la circolazione delle immagini di ogni posto sulla terra, ci fa sentire vicini a luoghi distanti, accorciando virtualmente lo spazio che ci separa da essi. Il sistema economico globale e le nuove forme di consumo contribuiscono all'individuazione dei destini costretti dei popoli”.

Il risultato è che il pianeta ci sembra sempre più piccolo fisicamente e infinitamente più grande per altri aspetti, sociali e culturali. L'autore vede nella "spettacolarizzazione del mondo" un'evidente caratteristica della surmodernità. Il mondo, i suoi tesori, le sue particolarità, sono oggetto di una intensa attività mediatica e ideologica che ne svuota i contenuti e le valenze a favore di una percezione superficiale. Il monumento e la città, così come ogni luogo, diventano immagine. Il patrimonio artistico, culturale e naturalistico delle nazioni si presenta anzitutto come un oggetto di consumo più o meno decontestualizzato, o come un oggetto il cui vero contesto è il mondo della circolazione planetaria o surmodernità.

Questo suo neologismo deriva dalla considerazione che la nuova modernità gli sembra prolungare, accelerare e complicare gli effetti della modernità come era stata concepita nel XVIII e nel XIX secolo. L’essenza della modernità è stata definita come presenza del passato nel presente che lo supera e lo rivendica: infatti in arte tutti gli autori rappresentativi della modernità si sono dati la possibilità di una polifonia in cui l’incrociarsi dei destini poggia su un “basso continuo”; si può citare l’incipit dell’ Ulisse di Joyce, con l’intonazione della liturgia INTROIBO AD ALTARE DEI. L’autore vuole dimostrare di non dimenticare i luoghi e ritmi antichi pur affrancandosene, non cancellandoli ma lasciandoli sullo sfondo. Ecco Baudelaire:

“…l’officina che canta e che chiacchiera;
Le ciminiere e i campanili, alberi della nave-città,
E i grandi cieli che fan sognare d’eternità.”

La modernità in arte preserva tutte le temporalità del luogo. La surmodernità, invece, è caratterizzata dai nonluoghi, e sarebbe l’effetto combinato di un’accelerazione della storia (e quindi della percezione del tempo), di un restringimento dello spazio e di una individualizzazione dei destini, il mondo intero si sta trasformando in un’unica “città” (le monde-ville) con un massiccio “collegamento virtuale” di tutti i grandi centri urbani. Ogni città tende a diventare essa stessa un “mondo” (la ville-monde) con gente proveniente da ogni angolo del pianeta e per la penetrazione diffusa e incessante di informazioni le relazioni di prossimità immediata cedono il passo alle interrelazioni di distanza.

Anche il sociologo tedesco Georg Simmel agli inizi del secolo scorso, nell’opera Le metropoli e la vita dello spirito, poneva l’attenzione sulla particolare condizione dell’individuo nell’era moderna, condannato alla difficoltà di mettere in risalto la propria personalità all’interno della vita metropolitana, ricorrendo alla particolarizzazione qualitativa, all’eccentricità, in modo da comprovare con l’inconfondibilità che il suo modo di esistere non sia stato imposto da altri. Infatti l’altra faccia della “libertà” metropolitana, rispetto alla vita di provincia, è che spesso ci si senta terribilmente soli e abbandonati proprio nel brulichio delle metropoli.
L’umanità sta trasformandosi sempre più in società deficiente di uno “spazio pubblico planetario”, un luogo di raccolta dove possano essere rappresentati e dibattuti i problemi comuni e realizzare a livello globale le istanze di una “Democrazia Urbana”. Augé definiva il nonluogo come uno spazio in cui colui che lo attraversa non può leggere nulla né della sua identità né dei suoi rapporti con gli altri o, più in generale, dei rapporti tra gli uni e gli altri, né a fortiori, della loro storia comune. Ma ancora meglio: il nonluogo è questione di sguardo. Sono cioè i nostri occhi, le nostre menti che si abbandonano alla spinta all’estraneità indotta da aeroporti, parchi di divertimento, villaggi turistici, catene di alberghi tutti identici in ogni parte del mondo, ecc.

“I non luoghi e le immagini sono, in un certo senso, saturi di umanità: prodotti dagli uomini, frequentati dagli uomini ma dagli uomini privati dei loro rapporti reciproci, della loro esistenza simbolica. Sono spazi che non si coniugano né al passato né al futuro, senza nostalgia né speranza. Invocano uno sguardo e una parola: uno sguardo, perché si ricostituisca un rapporto minimo; una parola, che valga a inserirli in un racconto.
Le rovine che si vanno a visitare in ogni angolo del mondo tendono a diventare esse stesse delle singolarità: il portarle alla luce è, in un certo qual modo, un evento architettonico, in virtù del quale è possibile riconoscere e identificare sommariamente una città o un paese. Sono in atto dei processi di uniformazione e di spettacolarizzazione che ci allontanano sia dal paesaggio rurale tradizionale, sia dal paesaggio urbano nato nell’Ottocento. Due tendenze si stanno delineando: da un lato, l’uniformità dei nonluoghi, dall’altro, il carattere artificiale delle “immagini”. L’espansione dei nonluoghi si accompagna ad alcuni eventi architettonici firmati da architetti di fama mondiale. In questo modo si affermano e si rivelano delle notevoli singolarità, mentre restauri e illuminazioni irrigidiscono il paesaggio della città”.

Viene stigmatizzata, infine, l’operazione di “messa in immagine”, come un fondale scenografico, dei centri storici che nel contempo si vanno svuotando di ogni vita e di ogni attività. Noi viviamo in un’epoca che mette in scena la storia, che ne fa uno spettacolo e, in questo senso, derealizza la realtà. È il passato ad essere trasformato in scenografia per turisti: un “décor” per il presente è per Augé la condizione del mondo occidentale contemporaneo: parlare soltanto del presente, mentre si tace del futuro.

“Assistiamo oggi a un appiattimento del tempo e a una sovversione dello spazio che investono la materia prima del viaggio e la scrittura. Si è detto che l’epoca della modernità ha determinato la scomparsa dei miti delle origini, e il XX secolo la scomparsa delle ideologie del futuro. Le tecnologie della comunicazione pretendono di abolire qualsiasi distanza, di eludere gli ostacoli del tempo e dello spazio, di dissolvere le oscurità del linguaggio, il mistero delle parole, le difficoltà dei rapporti, le incertezze delle identità o le esitazioni del pensiero. Passando da uno schermo all’altro, le evidenze dell’immagine, hanno forza di legge e instaurano la tirannia del perpetuo presente. L’architettura contemporanea non mira all’eternità ma al presente: un presente, tuttavia, insuperabile. Essa non anela all’eternità di un sogno di pietra, ma a un presente “sostituibile” all’infinito. La normale durata di vita di un edificio può essere oggi stimata, calcolata (come quella di un’automobile), ma è solitamente previsto che a un certo momento un altro immobile lo sostituirà. La città attuale è così l’eterno presente: edifici sostituibili gli uni con gli altri ed eventi architettonici, “singolarità” che sono anche avvenimenti artistici concepiti per attirare visitatori da tutto il mondo”.

NONLUOGHI

Il neologismo nonluoghi definisce due concetti complementari ma assolutamente distinti: da una parte quegli spazi costruiti per un fine ben specifico (solitamente di trasporto, transito, commercio, tempo libero e svago) e dall'altra il rapporto che viene a crearsi fra gli individui e quelli stessi spazi.
Marc Augé definisce i nonluoghi in contrapposizione ai luoghi antropologici, quindi tutti quelli spazi che hanno la prerogativa di non essere identitari, relazionali e storici. Fanno parte dei nonluoghi sia le strutture necessarie per la circolazione accelerata delle persone e dei beni (autostrade, svincoli e aeroporti), sia i mezzi di trasporto, i grandi centri commerciali, i campi profughi, eccetera. Spazi in cui milioni di individualità si incrociano senza entrare in relazione. I nonluoghi sono prodotti della società della surmodernità, incapace di integrare in sé i luoghi storici confinandoli e banalizzandoli in posizioni limitate e circoscritte alla stregua di "curiosità" o di “oggetti interessanti". Ognuno con un proprio stile e caratteristiche proprie nello spazio assegnato. Senza però contaminazioni e modificazioni prodotte dal nonluogo. Il mondo con tutte le sue diversità è tutto racchiuso lì. I nonluoghi sono incentrati solamente sul presente e sono altamente rappresentativi della nostra epoca, che è caratterizzata dalla precarietà assoluta (non solo nel campo lavorativo), dalla provvisorietà, dal transito e dal passaggio e da un individualismo solitario. Le persone transitano nei nonluoghi ma nessuno vi abita. I luoghi e i nonluoghi sono sempre altamente interlegati e spesso è difficile distinguerli. Raramente esistono in "forma pura": non sono semplicemente uno l'opposto dell'altro, ma fra di essi vi è tutta una serie di sfumature. In generale però sono gli spazi dello standard, in cui tutto al loro interno è calcolato con precisione il numero di decibel, dei lum, la lunghezza dei percorsi, la frequenza dei luoghi di sosta, il tipo e la quantità di informazione. Sono l'esempio esistente di un luogo in cui si concretizza il sogno della "macchina per abitare" – definizione propugnata da Le Corbusier - , spazi ergonomici efficienti e con un altissimo livello di comodità tecnologica. Nonostante questa omogeneizzazione i nonluoghi solitamente non sono vissuti con noia ma con una valenza positiva (l'esempio di questo successo è il "franchising" ovvero la ripetizione infinita di strutture commerciali simili tra loro). Gli utenti poco si preoccupano del fatto che i centri commerciali siano tutti uguali, godendo della sicurezza prodotta dal poter trovare in qualsiasi angolo del globo la propria catena di ristoranti preferita o la medesima disposizione degli spazi all'interno di un aeroporto.
Nel 1978 il musicista e produttore musicale inglese Brian Eno pubblicò una composizione musicale dal titolo Music for Airports che provocò un autentica rivoluzione nel modo di concepire, suonare e ascoltare musica: una orchestrazione minimalista realizzata con piano, sintetizzatori, motivi continui registrati su nastro, vocalizzi umani e prolungati momenti di silenzio, la registrazione gli fu ispirata dall’esperienza all’interno dell’aeroporto di Colonia in attesa del volo. Quel giorno l’aeroporto era quasi vuoto, e questo lo portò a concentrarsi sull’atmosfera dello stesso terminal. Cominciò a pensare ad un tipo di musica che potesse ben adattarsi a questi ambienti non concepibili come veri e propri luoghi, essendo in parte spazi d’attesa e in parte spazi di transito. Questa musica avrebbe dovuto essere facilmente interrompibile per consentire i consueti annunci dell’aeroporto; avrebbe dovuto essere ben distinguibile dal rumore del parlare delle persone presenti; e avrebbe dovuto assecondare le peculiarità acustiche dell’ambiente piuttosto che competerci. Ma soprattutto Eno pensò che la musica avrebbe dovuto rispecchiare le sensazioni che le persone provano negli aeroporti: doveva essere eterea e ricordare dove sei, perché sei lì – volando, fluttuando, e segretamente giocando con la morte.

Eno chiamò tutto ciò “ambient music”: musica pensata per riempire uno spazio, che mette al centro l’ascoltatore, perché concepita per essere parte dell’ambiente e di ciò che normalmente si svolge in esso. Immergersi in essa: questo è il punto centrale: noi stavamo facendo della musica in cui nuotare, fluttuare, perdersi. La musica di Eno chiarì l’importanza di un’atmosfera, un background per definire un luogo, oppure nel caso dell’aeroporto un nonluogo.
Ritornando a Baudelaire e al concetto di modernità con la doppia caratteristica di “perdita del soggetto nella folla, o, all’inverso il potere assoluto rivendicato dalla coscienza individuale”, si può osservare che anche la posizione stessa del poeta che guarda è spettacolo. In questo quadro parigino è Baudelaire ad occupare il primo posto: “…con il mento sulle mani, dall’alto della mia mansarda,/vedrò l’officina che canta e che chiacchiera,/le ciminiere, i campanili…”
Questa è una forma molto moderna di solitudine, ed è a simili spostamenti dello sguardo, a tali svuotamenti della coscienza che le manifestazioni della surmodernità possono condurre; tuttavia nella modernità del passaggio baudeleriano tutto si mischia, officine e campanili, appena gli individui si accostano, fanno del sociale e organizzano dei luoghi; mentre la surmodernità fa dell’antico (la storia) uno spettacolo specifico.
Da qui uno dei paradossi dei nonluoghi: il viaggiatore di passaggio smarrito in un paese sconosciuto si ritrova solamente nell'anonimato delle autostrade, delle stazioni di servizio e degli altri nonluoghi.
Il rapporto fra nonluoghi e i loro fruitori avviene solitamente tramite simboli (parole o voci preregistrate). L'esempio lampante sono i cartelli affissi negli aeroporti vietato fumare oppure non superare la linea bianca davanti agli sportelli. L'individuo nel nonluogo perde tutte le sue caratteristiche e i ruoli personali per continuare ad esistere solo ed esclusivamente come cliente o fruitore. Il suo unico ruolo è quello dell'utente, questo ruolo è definito da un contratto più o meno tacito che si firma con l'ingresso nel nonluogo.
Le modalità d'uso dei nonluoghi sono destinate all'utente medio, all'uomo generico, senza distinzioni. Non più persone ma entità anonime: il cliente conquista dunque il proprio anonimato solo dopo aver fornito la prova della sua identità, solo dopo aver, in qualche modo, controfirmato il contratto. Non vi è una conoscenza individuale, spontanea ed umana. Non vi è un riconoscimento di un gruppo sociale, come siamo abituati a pensare nel luogo antropologico. Si è socializzati, identificati e localizzati solo in occasione dell'entrata o dell'uscita nel/dal nonluogo, per il resto del tempo si è soli e simili a tutti gli altri utenti/passeggeri/clienti che si ritrovano a recitare una parte che implica il rispetto delle regole. La società che si vuole democratica non pone limiti all'accesso ai nonluoghi, a patto che si rispettino una serie di regole: poche e ricorrenti. Farsi identificare come utenti, attendere il proprio turno, seguire le istruzioni, fruire del prodotto e pagare.
Anche il concetto di "viaggio" è stato pesantemente attaccato dalla surmodernità: grandi nonluoghi posseggono ormai la medesima attrattività turistica di alcuni monumenti storici. A proposito del più grande centro commerciale degli Stati Uniti d'America, il "Mall of America", che richiama oltre 40 milioni di visitatori ogni anno (molti dei quali ci entrano nel corso di un giro turistico), scrive il critico Michael Crosbie nella rivista “Progressive Architecture”: si va al Mall of America con la stessa religiosa devozione con cui i Cattolici vanno in Vaticano, i Musulmani alla Mecca, i giocatori di azzardo a Las Vegas, i bambini a Disneyland. Anche i centri storici delle città europee si stanno sempre di più omologando, con i medesimi negozi e ristoranti, il medesimo modo di vivere delle persone e addirittura gli stessi artisti di strada. L'identità storica delle città ridotta a stereotipo di richiamo turistico.

IL TURISTA

Nelle città si delineano così due tendenze fondamentali. La prima è l'uniformità dei non-luoghi: la circolazione di prodotti, il loro consumo e la loro comunicazione hanno nei loro contenitori una forma simile, ed un senso di déjà-vu coglie l'osservatore in ogni luogo della terra. È il caso degli aeroporti, delle stazioni, di molti edifici commerciali, nella quale i quartieri sono tutti uguali, senza memoria della propria identità, che rispecchiano la moda planetaria. Questa uniformità si contrappone alle "singolarità" architettoniche (come la piramide del Louvre o il Guggenheim).
La seconda tendenza riguarda il carattere artificiale delle immagini. Sempre di più il governo dei paesi cerca di gestire il patrimonio e di farne una ricchezza. Ma l'errore fondamentale è l'artificiosità con la quale viene inteso il "carattere locale", la tradizione e l'identità delle città. Il restauro fa parte della classe delle ricostruzioni, riproduzioni e simulacri che impestano il mondo del consumo. Ridipingere la facciata di un palazzo e costruirvi dietro la struttura nuova viene associato alla ricostruzione fedele, alla copia dell'originale, e questa spettacolarizzazione rende ogni giorno più tenue il confine tra la realtà e la sua rappresentazione, tra la realtà e la finzione. Si ricostruisce la realtà a partire dal suo simulacro, dall'immagine che il grande pubblico ha dell'oggetto, dove non esiste più nulla ma tutto è simile a prima. I restauri nei centri storici fanno assomigliare Parigi o Roma alle cartoline che si vendono nelle bancarelle. In questo modo le città cercano una immagine che appartiene loro marginalmente, la più commerciabile, e a questa adattano le strategie di make-up urbano per accontentare la domanda. Questo è ciò che Augé chiama l' "effetto Disneyland". Uno dei fenomeni di questo effetto è sicuramente il turismo, simbolo limpido della progressiva spettacolarizzazione del mondo. Esso stesso "una delle forme più spettacolari del presente", è utile al fine di comprendere la tesi della surmodernità, poiché è lo specchio delle grandi ambivalenze d'oggi. Il simultaneo amplificarsi del turismo con i movimenti migratori ritrae i due mondi che viviamo: quello ricco che si sposta brevemente con il turismo e quello povero che si sposta a tempo indeterminato con la migrazione. Il viaggiare per piacere o per necessità distingue geopoliticamente i popoli. Il turismo diviene così la categoria di distinzione tra essi.
A questa prima ambivalenza se ne aggiungono altre: il patrimonio dei luoghi si presenta sempre più come un oggetto di consumo, al quale segue che il viaggio si costituisce come verifica di ciò che già si conosce come immagine. Un turista verifica che Venezia sia esattamente come le immagini dei dépliant o delle cartoline! Così il simulacro penetra sempre più nella realtà. L'uomo contemporaneo si fa cullare nell'illusione perché il suo mondo si dirige verso la propria spettacolarizzazione. È indicativo notare che per l'uso di Internet si usino i verbi "viaggiare" o "navigare", termini che non solo indeboliscono la differenza tra realtà e immagine, ma, in forza di questa indistinzione, rendono il senso illusorio di ubiquità. Allo stesso modo che per gli "oggetti" delle città, il turismo spettacolarizza anche la natura, le tradizioni, i costumi locali... Il viaggio, per Augé, è ben diverso: è come la scrittura, dove l'uomo racconta gli episodi di una vita, pieni di imprevisti e scoperte, di differenze. Il turismo si contrappone quindi al viaggio, poiché "il turista consuma la propria vita, il viaggiatore la scrive". Il paesaggio, ad esempio, "è lo spazio descritto da un uomo ad altri uomini", ovvero un racconto pieno di omissioni, di ricordi e opinioni: si configura come un tessuto di differenze, una trama vitale perché incompleta.

“Malgrado le apparenze, il mondo attuale conosce ancora le utopie. Una di queste è il turismo. Il turista è colui che ha la possibilità di considerare l’insieme del pianeta come luogo di passaggio. Si può giudicare questa utopia in due modi diversi. O la si considera come punto di arrivo della società di consumo: vi si vende del movimento, dello spostamento, con in più un po’ di sole o di sabbia. Gli individui comprano la loro capacità di muoversi e si è dunque al vertice del sistema. In una prospettiva utopica, l’individuo che si muove, che è senza legami, o meglio che gioca con questi legami, libero di sceglierseli, mi sembra un valore molto raccomandabile. Tutto il contrario della solitudine, dunque, ma una libertà di scelta che non ha le sue radici in un’identità o in una data cultura. Per ora abbiamo perlopiù a che fare con una parte del mondo che viaggia e una che accoglie, si può dividere il mondo in paesi di turisti e paesi di emigranti. Per portare l’utopia all’estremo: il turismo diventerà una cosa molto raccomandabile, perfettamente splendida e metafisica quando non ci saranno che turisti. Sei miliardi di turisti! È irrealista? Non più di tante altre utopie...”

Queste tendenze sono d’altra parte effetto del processo di globalizzazione, concetto ampiamente analizzato dal sociologo Zygmunt Bauman, secondo il quale il cyberspazio (cioè il mondo virtuale della “rete” e delle informazioni contenute in essa) rende extraterritoriali i membri delle classi colte, fuori dalla portata delle persone che condividono i loro spazi materiali. Infatti un tempo le élite erano territoriali – un re ha la sua reggia e il suo trono – mentre con la fine del Novecento capitale e conoscenza si sono emancipati dalla loro dimensione locale. Prende corpo quindi la solitudine del cittadino globale: le politiche neoliberiste, esaltando la libertà individuale di scelta, il ritmo convulso delle sollecitazioni, rendono quanto mai incerto il concetto di identità. (Non a caso già la modernità poneva interrogativi inquietanti sull’identità degli uomini: Mattia Pascal lo sperimenta sulla propria carne, privo com’è di una patente che certifichi la sua esistenza). Questa società è popolata da “cacciatori di identità”, attaccati ai segni di affermazione della propria personalità, ma con altrettanta forza indotti dalla velocità sbalorditiva della loro svalutazione pubblica ad abbandonarli o rimpiazzarli. Nel nostro tempo il mutamento dei fenomeni è sottoposto a ritmi rapidissimi: è per questo che seguire la moda, soprattutto in campo lavorativo, può rivelarsi molto pericoloso.

LE ROVINE

È a questo punto che si pone l'attenzione sulle rovine. Le rovine riescono ad uscire dal gioco folle del mondo contemporaneo. Sfuggono al "tempo reale", poiché risvegliano nell'osservatore la "coscienza della mancanza": l'occhio si posa su di esse come se fossero un oggetto contemporaneo, e, al contempo, una data incerta a loro attribuita rende quasi impossibile un riferimento ad una epoca fissata nella memoria storica come immagine. A Roma si ha l'impressione (di vedere) una sorta di immensa rovina senza età, nella quale chi passeggia innocente può trovare il puro godimento di un tempo che nessun monumento e nessun sito riescono ad imprigionare. Le rovine di Roma, così come quelle di Berlino o di Tikal, o quelle sparse in tutto il mondo orientale, riescono, attraverso la differente percezione e coscienza storica che abbiamo di esse, a sottrarsi alla spettacolarizzazione. Esse riescono a farci percepire un "tempo puro" che sfugge al "tempo della storia", un tempo nel quale perdersi ed osservare il mondo senza preconcetti o corredi culturali che spodestano la realtà a favore della sua codificazione. È questa la coscienza della mancanza: espressione dell'assenza, le rovine, con le loro molteplici epoche ed irricostruibili storie, rappresentano la speranza per un mondo non oggettivabile. L'assenza di una determinazione spazio-temporale ci fa esperire un "tempo puro", quel tempo che confonde epoche lontane e attuali in un sentimento vitale. Il paesaggio delle rovine è la duplice prova di una funzionalità perduta e di una attualità massiccia, che si dà attraverso i propri segreti, lo stupore e la curiosità che derivano dal non sapere tutto, dal non aver letto tutto. Le rovine ci fanno fugacemente avvertire una distanza fra un senso passato, scomparso e una percezione attuale, incompleta. La percezione di questo scarto è la percezione stessa del tempo, della subitanea e fragile realtà del tempo, cancellata in un batter d'occhio dall'erudizione e dal restauro (l'evidenza illusoria del passato) come dallo spettacolo e dall'aggiornamento.
D’altra parte anche John Ruskin, attivo nella speculazione architettonica ottocentesca, aveva proposto una posizione di assoluto non intervento sul “monumento”: opponendosi al restauro egli sostenne che i monumenti dovessero essere soggetti a regolare manutenzione oppure lasciati allo stato di rudere, permettendo così ad essi, come ogni essere vivente, di morire.
Le rovine sono l'alternativa al tempo storico e allo spazio spettacolarizzato poiché in esse si avverte il "senso puro" e la "massiccia attualità". E dispiace che a Berlino le rovine del muro siano state cancellate, e che sia difficile rendersi conto di come leggere la città storica. La memoria di Berlino è così compromessa quando la forma cambia senza che le rovine del passato ne accrescano il valore. Postdamerplatz ha preferito l'architettura dei non-luoghi alle sue macerie. Ha preferito il consumo alla memoria, il turismo di massa al viaggio. Anche a Parigi, città di Augé, l'architettura nuova non disegna una città nuova, ma una città stereotipata, priva di passato e quindi di avvenire, priva di originalità. Il rischio è che le città finiscano per assomigliare sempre più ad aeroporti!
Quando il mondo come oggetto di consumo marca la sua fine, le rovine sono ancora segno di vitalità perché non balbettano il proprio passato scadendo nel pittoresco, nella farsa, nel simulacro. Esse ridonano il senso del tempo poiché sono osservabili come presenze attuali non volgarizzabili dallo storicismo di consumo, poiché conservano l'indeterminabilità e l'enigma, il mistero.
Le rovine sono il culmine dell'arte nella misura in cui accolgono in sé molteplici passati e, quindi, molteplici scritture di viaggio. La loro bellezza dipende dalla loro inafferrabilità. Ma Augé afferma che la bellezza è propria anche dei non-luoghi. Questi, con il loro cambiamento di scala e il loro porsi come oggetti dell'attualità che contengono infinite differenze, accedono al tempio della bellezza. Hanno la bellezza di ciò che non esiste ancora. La speranza è quella di reimparare a sentire il tempo per riprendere coscienza della storia.

“Ciò che è significativo nell’esperienza del nonluogo è la sua forza di attrazione, inversamente proporzionale all’attrazione territoriale, alla pesantezza del luogo e della tradizione, e la percezione più o meno chiara dell’accelerazione della storia e del restringimento del pianeta. Questa esperienza è oggi una componente essenziale di ogni esistenza sociale: mai le storie individuali sono state così coinvolte nella storia generale, nella storia tout court; a partire da qui tutti gli atteggiamenti individuali sono concepibili: la fuga, la paura, l’intensità dell’esperienza (la performance) o la rivolta. Non c’è più analisi sociale che possa tralasciare gli individui, né analisi degli individui che possa ignorare gli spazi attraverso i quali essi transitano. Un giorno forse un segno verrà da un altro pianeta. E l’insieme dello spazio terrestre diventerà un luogo. Essere terrestre significherà qualcosa. Nell’attesa è nell’anonimato del nonluogo che si prova in solitudine la comunanza dei destini umani: c’è già posto per un’etnologia della solitudine.”

L’ARTE

Augé parla dell'arte come l'unico invito a sentire il tempo.

“L'arte esprime sia una prova di resistenza che di virtualità e di utopia. Guarda al passato perché ha dei precedenti, è iscritta nella tradizione; tuttavia, solo il futuro può dirci cosa resisterà e cosa no. L'arte implica un’immersione nella temporalità in movimento; la scrittura è una forma di resistenza. Nella attuale organizzazione del mondo, l'ironia mi pare sia l'unica forma possibile alla quale consegnare la scrittura. Viviamo in un mondo fatto di evidenze, e dunque l'ironia è necessaria proprio perché essa è, per eccellenza, il frutto di una presa di distanza, di un rallentamento del tempo. L'ironia è già l'arte della scrittura”.


Calvino nelle “Lezioni americane” insiste sul compito inesauribile dl romanziere di ricercare e restituire la molteplicità e le connessioni infinite nella loro inestricabile complessità. Evoca “rapidità”, “visibilità” e “molteplicità” (insieme a “leggerezza” ed “esattezza”): nell’orizzonte tecnologico novecentesco l’idea di una letteratura rapida, sciolta e adattabile appare al romanziere un procedimento giusto per inseguire il fulmineo percorso dei circuiti mentali che catturano e collegano punti lontani nello spazio e nel tempo.

“In un’epoca in cui altri media velocissimi e di estesissimo raggio trionfano, e rischiano di appiattire ogni comunicazione in una crosta uniforme e omogenea, la funzione della letteratura è la comunicazione tra ciò che è diverso, non ottundendone bensì esaltandone la differenza, secondo la vocazione propria del linguaggio scritto.”

CONCLUSIONE

Dopo aver cercato di delineare i “confini” della surmodernità, di chiarire il concetto di nonluogo in rapporto al luogo antropologico, dopo aver esaminato la visione del turismo come utopia di massa, delle rovine come estremo baluardo del tempo e la funzione analoga dell’arte e della scrittura, mi sembra opportuno concludere citando ancora Simmel, per fare nostro il suo pensiero riguardo alla realtà che stava studiando:

“…il nostro compito…non è quello di accusare o di perdonare: solo quello di comprendere.”


BIBLIOGRAFIA & FONTI:

Marc Augé,
-Nonluoghi, introduzione a una antropologia della surmodernità, 1993 Elèuthera

-Rovine e macerie. Il senso del tempo, 2004 Bollati Boringhieri

-Intervista dell’autore rilasciata al quotidiano Il manifesto del 5-6-2004

-Enciclopedia online Wikipedia